L’ABC del diritto dell’Unione europea

PREMESSA

L’ordinamento giuridico dell’Unione europea (UE) è parte integrante della nostra realtà politica e sociale. Sulla base dei trattati dell’UE vengono adottate ogni anno migliaia di decisioni, che concorrono in modo determinante a formare il contesto in cui si collocano gli Stati membri e i loro cittadini. Il singolo individuo ormai non è soltanto un cittadino del suo Stato, della sua città o del suo comune, ma è anche cittadino dell’UE. Anche per questa ragione è importante che i cittadini dell’UE conoscano tale ordinamento giuridico, che incide anche sulla loro vita quotidiana. Per il cittadino non è però sempre agevole comprendere la struttura complessiva dell’UE. Da un lato, la complessità dei testi rende difficile avere una visione globale dei trattati e comprenderne la portata; dall’altro, molti concetti fatti propri dai trattati sono inusuali per i cittadini. Pertanto si dovrebbe cercare di veicolare ai cittadini interessati una prima comprensione della struttura dell’UE e i pilastri dell’ordinamento giuridico europeo. La struttura di base dell’UE, nonché il suo ordinamento giuridico, che è di particolare interesse in questa sede, sono molto stabili; tuttavia sono soggetti a innumerevoli cambiamenti su scala più o meno ampia, come ad esempio le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Questa edizione de L’ABC del diritto dell’Unione europea contempla tutti i principali sviluppi dell’ordinamento giuridico dell’UE fino al 2023.

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

ACP Africa, Caraibi e Pacifico
BCE Banca centrale europea
CE Comunità europea
CECA Comunità europea del carbone e dell’acciaio
CEDU Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Convenzione europea dei diritti dell’uomo)
CEE Comunità economica europea
CESE Comitato economico e sociale europeo
EPPO Procura europea
Euratom Comunità europea dell’energia atomica
MES Meccanismo europeo di stabilità
NATO Organizzazione del trattato del Nord Atlantico
OCSE Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici
OECE Organizzazione europea per la cooperazione economica
OSCE Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa
PSA Processo di stabilizzazione e di associazione
SEE Spazio economico europeo
TFUE Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
Trattato CE Trattato che istituisce la Comunità europea
Trattato UE/TUE Trattato sull’Unione europea
UE Unione europea
UEO Unione dell’Europa occidentale

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI

26 giugno 1945: Firma a San Francisco della Carta delle Nazioni Unite

9 settembre 1946: Discorso di Winston Churchill a Zurigo sui vantaggi degli Stati Uniti d’Europa

17 marzo 1948: Firma a Bruxelles del trattato che istituisce l’Unione dell’Europa occidentale

4 aprile 1949: Firma a Washington del trattato del Nord Atlantico che istituisce la NATO

16 aprile 1949: Istituzione a Parigi dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica

5 maggio 1949: Firma a Strasburgo del trattato che istituisce il Consiglio d’Europea

9 maggio 1950: Dichiarazione di Robert Schuman sulla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio come primo passo per l’istituzione di una Federazione europea

4 novembre 1950: Firma a Roma della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

18 aprile 1951: Firma del trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (trattato CECA) a Parigi da parte di Belgio, Repubblica federale di Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi — durata 50 anni

23 luglio 1952: Entrata in vigore del trattato CECA

1º giugno 1955: Conferenza dei ministri degli Affari Esteri a Messina in preparazione del trattato CEE

25 marzo 1957: Firma a Roma dei trattati che istituiscono la Comunità economica europea (trattato CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (trattato CEEA/trattato Euratom) da parte di Belgio, Repubblica federale di Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi (trattati di Roma)

1º gennaio 1958: Entrata in vigore dei trattati di Roma

4 gennaio 1960: Istituzione a Stoccolma dell’Associazione europea di libero scambio da parte di Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Svezia e Svizzera

14 dicembre 1960: Firma a Parigi della convenzione relativa all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici

8 aprile 1965: Firma del trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee (trattato di fusione)

1º luglio 1967: Entrata in vigore del trattato di fusione

1º gennaio 1973: Adesione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito alle Comunità europee

1º agosto 1975: Firma a Helsinki dell’Atto finale della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa

18 dicembre 1978: Istituzione del sistema monetario europeo

7-10 giugno 1979: Prima elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto

1º gennaio 1981: Adesione della Grecia alle Comunità europee

1º gennaio 1985: Recesso della Groenlandia dalla Comunità economica europea

14 giugno 1985: Accordo di Schengen tra Belgio, Francia, Repubblica federale di Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi relativo all’eliminazione graduale dei controlli di frontiera

1º gennaio 1986: Adesione di Portogallo e Spagna alle Comunità europee

1º luglio 1987: Avvio dell’Atto unico europeo

3 ottobre 1990: Adesione della Repubblica democratica tedesca alla Repubblica federale di Germania e integrazione nelle Comunità europee

7 febbraio 1992: Firma a Maastricht del trattato sull’Unione europea (trattato di Maastricht)

2 maggio 1992: Firma a Porto dell’accordo sullo Spazio economico europeo (accordo SEE)

1º gennaio 1993: Istituzione del mercato unico

1º novembre 1993: Entrata in vigore del trattato sull’Unione europea (trattato di Maastricht)

1º gennaio 1994: Entrata in vigore dell’accordo SEE

1º gennaio 1995: Adesione di Austria, Finlandia e Svezia all’Unione europea

1º marzo 1995: Entrata in vigore della convenzione di Schengen (ulteriori membri fino a marzo 2001: Danimarca, Grecia, Spagna, Italia, Austria, Portogallo, Finlandia e Svezia)

16 luglio 1997: Pubblicazione del programma «Agenda 2000» della Commissione europea sull’allargamento dell’UE

2 ottobre 1997: Firma del trattato di Amsterdam

12 dicembre 1997: Avvio a Lussemburgo del processo di allargamento dell’Unione europea da parte del Consiglio europeo

1º ottobre 1998: Entrata in vigore della convenzione Europol (cooperazione tra forze di polizia nell’UE)

1º gennaio 1999: Introduzione della moneta unica europea «euro»

1º maggio 1999: Entrata in vigore del trattato di Amsterdam

24 marzo 2000: Adozione della strategia di Lisbona per il rinnovamento economico, sociale e ambientale dell’UE

8 dicembre 2000: Proclamazione solenne della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

26 febbraio 2001: Firma del trattato di Nizza

1º gennaio 2002: Introduzione delle banconote e delle monete in euro come mezzo di pagamento

28 febbraio 2002: Istituzione di Eurojust (dal 2019, Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale)

1º febbraio 2003: Entrata in vigore del trattato di Nizza

1º maggio 2004: Adesione all’UE di Cechia, Estonia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia

29 ottobre 2004: Firma del trattato che adotta una Costituzione per l’Europa

Maggio/giugno 2005: Rifiuto del trattato che adotta una costituzione per l’Europa in occasione dei referendum in Francia (54,7 % voti contrari) e nei Paesi Bassi (61,7 % voti contrari)

1º gennaio 2007: Adesione di Bulgaria e Romania all’UE

1º gennaio 2007: Introduzione dell’euro in Slovenia

1º marzo 2007: Istituzione dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali

12 dicembre 2007: Proclamazione solenne a Strasburgo della Carta dei diritti fondamentali da parte del Parlamento europeo, del Consiglio dell’Unione europea e della Commissione europea

13 dicembre 2007: Firma del trattato di Lisbona

21 dicembre 2007: Cechia, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia aderiscono allo spazio Schengen

1º gennaio 2008: Introduzione dell’euro a Cipro e a Malta

12 giugno 2008: Primo referendum in Irlanda sul trattato di Lisbona (53,4 % voti contrari)

12 dicembre 2008: La Svizzera aderisce allo spazio Schengen

1º gennaio 2009: Introduzione dell’euro in Slovacchia

2 ottobre 2009: Secondo referendum in Irlanda sul trattato di Lisbona (67,1 % voti favorevoli)

1º dicembre 2009: Entrata in vigore del trattato di Lisbona

1º dicembre 2009: Herman van Rompuy diventa il primo presidente del Consiglio europeo; la baronessa Catherine Ashton diventa la prima alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

21 giugno 2010: Creazione del servizio europeo per l’azione esterna

1º gennaio 2011: Introduzione dell’euro in Estonia

1º gennaio 2011: L’autorità europea di vigilanza diventa operativa

25 marzo 2011: Adozione del Patto euro plus sul coordinamento delle politiche economiche dell’Unione economica e monetaria

19 dicembre 2011: Il Liechtenstein aderisce allo spazio Schengen

30 gennaio 2012: 25 Stati membri concordano un trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria

2 febbraio 2012: Firma del trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità

1º luglio 2013: Adesione della Croazia all’UE

1º gennaio 2014: Introduzione dell’euro in Lettonia

18 settembre 2014: Referendum sull’indipendenza della Scozia: 55,3 % voti contrari, 44,7 % voti favorevoli

1º gennaio 2015: Introduzione dell’euro in Lituania

12 marzo 2015: L’Islanda ritira formalmente la sua domanda di adesione all’UE

23 giugno 2016: Referendum sul recesso del Regno Unito (51,9 % voti a favore)

30 dicembre 2016: Entrata in vigore dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici da parte dell’UE in seguito alla ratifica da parte degli Stati membri

29 marzo 2017: Notifica della decisione di recesso da parte della premier britannica Theresa May

31 gennaio 2020: Recesso del Regno Unito dall’UE dopo 47 anni di adesione

9 maggio 2020: 70º anniversario della dichiarazione Schuman

1º gennaio 2021: Il Regno Unito lascia il mercato interno e l’unione doganale dell’UE nonché tutte le politiche e gli accordi commerciali dell’UE alla scadenza del periodo di transizione. In loro sostituzione entra in vigore l’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione UE-Regno Unito

10 marzo 2021: Firma della dichiarazione congiunta del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione sulla conferenza sul futuro dell’Europa

28 giugno 2021: L’UE adotta la prima normativa europea sul clima

1º gennaio 2023: Introduzione dell’euro in Croazia (20º membro della zona euro)

1º gennaio 2023: La Croazia aderisce allo spazio Schengen

DA PARIGI A LISBONA, PASSANDO PER ROMA, MAASTRICHT, AMSTERDAM E NIZZA

Fino a pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’attività politica e statale era ancora basata quasi esclusivamente sulle costituzioni e legislazioni nazionali, che nei nostri Stati democratici fissavano norme di condotta aventi carattere vincolante per i cittadini e i partiti, ma anche per lo Stato e i suoi organi. Solo il crollo totale dell’Europa e il declino economico e politico del vecchio continente hanno creato le premesse per un rinnovamento, rilanciando l’idea di un nuovo ordine europeo.

Gli sforzi di unificazione europea del dopoguerra riflettono l’immagine sconcertante e assai poco trasparente di organizzazioni complesse. Coesistono così, senza un reale collegamento tra loro, organizzazioni quali l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (OCSE), l’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (NATO), il Consiglio d’Europa e l’Unione europea.

La diversità del panorama europeo appare però strutturata se si considerano gli obiettivi che si celano dietro alle diverse organizzazioni. Si distinguono tre gruppi.

Primo gruppo: le organizzazioni euro-atlantiche

Le organizzazioni appartenenti a questo gruppo sono sorte dal patto di alleanza concluso dopo la seconda guerra mondiale tra gli Stati Uniti d’America e l’Europa. Non è pertanto un caso se la prima organizzazione del dopoguerra, vale a dire l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), fondata nel 1948, venne creata su iniziativa degli Stati Uniti. Nel 1947 l’allora Segretario di Stato americano, George Marshall, sollecitava gli Stati europei a unire i loro sforzi nell’opera di ricostruzione economica. Allo scopo prometteva loro il sostegno degli Stati Uniti, sostegno che si concretizzò nel «Piano Marshall» e gettò le basi di una ricostruzione rapida dell’Europa occidentale. La missione iniziale dell’OECE consisteva essenzialmente nel liberalizzare gli scambi tra gli Stati. Nel 1960 i membri dell’OECE, cui si aggiunsero anche Canada e Stati Uniti, decisero di estendere il campo di azione anche al terzo mondo tramite gli aiuti allo sviluppo. L’OECE diventava quindi l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici), che oggi conta 38 membri.

Paul-Henri Spaak, seduto a un tavolo, mentre firma il trattato circondato da numerosi delegati appoggiati al tavolo e da due delegati seduti accanto a lui, uno a destra e uno a sinistra.

Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri belga, firma il trattato di fusione degli esecutivi delle tre Comunità (CECA, CEE ed Euratom). Bruxelles, Belgio, 8 aprile 1965. Il trattato ha istituito un unico Consiglio e un’unica Commissione delle Comunità europee.

Alla creazione dell’OECE fece seguito, nel 1949, quella della NATO, sotto forma di patto militare con il Canada e gli Stati Uniti. La NATO ha come scopo la difesa e l’assistenza collettiva. È stata concepita nell’ambito di una cintura di sicurezza globale progettata per frenare l’influenza dell’Unione Sovietica. Dopo la caduta della «Cortina di ferro» nel 1989 e il successivo crollo dell’Unione Sovietica, è diventata sempre più un’organizzazione per la gestione delle crisi e la promozione della stabilità. Fanno parte della NATO 31 Stati, tra cui 22 Stati membri dell’UE (a esclusione di Irlanda, Cipro, Malta, Austria e Svezia) e Albania, Canada, Islanda, Montenegro, Macedonia del Nord, Norvegia, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti. Per rafforzare la collaborazione politica in materia di sicurezza tra gli Stati europei, nel 1954 veniva fondata l’Unione dell’Europa occidentale (UEO). Tale organizzazione ha segnato l’esordio della politica di difesa e di sicurezza in Europa. Il suo ruolo è comunque venuto meno e la maggior parte delle sue competenze sono state trasferite a favore di altre istituzioni, come la NATO, il Consiglio d’Europa e l’Unione europea. Di conseguenza, l’UEO è stata sciolta il 30 giugno 2011.

Secondo gruppo: Consiglio d’Europa e Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa

La prerogativa di questo secondo gruppo di organizzazioni europee è rappresentata dalla loro stessa struttura, prevista in modo tale da consentire a quanti più Stati possibile di cooperarvi. Peraltro è stato deliberatamente convenuto che la cooperazione tra tali organizzazioni non andasse oltre la tradizionale cooperazione interstatale.

Robert Schuman, in piedi al centro di una stanza imponente, davanti a un camino riccamente decorato, si rivolge ai delegati seduti di fronte a lui o in piedi attorno al tavolo.

Dichiarazione Schuman, del 9 maggio 1950, nella Sala dell’orologio della sede del ministero francese degli Affari esteri al Quai d’Orsay di Parigi. Il ministro degli Esteri francese Robert Schuman propone di raggruppare l’industria europea del carbone e dell’acciaio in una Comunità europea del carbone e dell’acciaio. In questo modo una guerra tra gli Stati coinvolti sarebbe risultata non solo impensabile, ma anche materialmente impossibile.

Queste organizzazioni includono il Consiglio d’Europa, fondato il 5 maggio 1949 come organizzazione politica, che conta attualmente 46 membri, inclusi tutti gli attuali Stati membri dell’UE. Nello statuto del Consiglio d’Europa non vi è alcuna indicazione circa la volontà di creare una federazione o un’unione, né circa un eventuale trasferimento o esercizio in comune di elementi della sovranità nazionale. Il Consiglio d’Europa adotta le sue decisioni su ogni questione essenziale all’unanimità. Ciascuno Stato può pertanto opporre il veto all’adozione di una decisione. Nella sua concezione, il Consiglio d’Europa resta pertanto un organismo di cooperazione internazionale.

Sotto la sua egida si sono concluse numerose convenzioni in campo economico, culturale, politico-sociale e giuridico. Tra queste la più importante e, nel contempo, anche la più nota è la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), del 4 novembre 1950, alla quale nel frattempo hanno aderito tutti i 46 membri del Consiglio d’Europa. La CEDU non soltanto ha consentito di stabilire un importante livello minimo di salvaguardia dei diritti dell’uomo negli Stati membri, ma ha anche istituito un sistema di garanzie giuridiche che conferiscono agli organi istituiti dalla convenzione, vale a dire la Commissione europea dei diritti dell’uomo e la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, il potere di condannare, nel quadro delle sue disposizioni, le violazioni dei diritti dell’uomo negli Stati membri.

A tale gruppo appartiene anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), istituita nel 1994 in seguito alla conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE). L’OSCE, attualmente composta da 57 paesi, è vincolata ai principi e agli obiettivi definiti dall’Atto di Helsinki del 1975 e dalla Carta di Parigi del 1990. Tra tali obiettivi figura, oltre alla promozione di misure intese a creare un clima di fiducia tra gli Stati membri, anche la realizzazione di una «rete di sicurezza» destinata ad appianare eventuali conflitti con mezzi pacifici.

Terzo gruppo: Unione europea

L’Unione europea (UE), che costituisce il terzo gruppo di organizzazioni a livello europeo, si distingue dalle associazioni internazionali tradizionali di Stati per una novità fondamentale: essa riunisce, infatti, Stati membri che hanno rinunciato a una parte della loro sovranità a favore dell’UE e hanno conferito a quest’ultima poteri che le sono propri, indipendenti dagli Stati membri. Nell’esercizio di tali poteri, l’UE è in grado di emanare atti giuridici europei di efficacia pari agli atti sovrani nazionali.

La prima pietra per la costruzione dell’UE venne posta dall’allora ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, con la sua dichiarazione del 9 maggio 1950, nella quale presentò il piano elaborato in collaborazione con Jean Monnet, che prevedeva l’unificazione dell’industria carbosiderurgica europea in una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Si trattava di un’iniziativa storica a favore di un’«Europa organizzata e vitale», «indispensabile» per la civiltà e senza la quale «non può essere salvaguardata la pace mondiale».

Il «piano Schuman» divenne realtà il 18 aprile 1951 a Parigi («trattato di Parigi»), con la conclusione, da parte dei sei paesi fondatori (Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi), del trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), entrato in vigore il 23 luglio 1952. La durata della CECA era limitata a 50 anni e, alla scadenza del trattato costitutivo, il 23 luglio 2002 essa è stata «integrata» nella Comunità europea. Alcuni anni più tardi, gli stessi Stati istituivano, sulla base dei trattati di Roma del 25 marzo 1957, la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), che assunsero le loro competenze con l’entrata in vigore dei trattati, il 1º gennaio 1958.

La creazione dell’Unione europea attraverso il trattato di Maastricht ha segnato una nuova tappa nel processo di unificazione politica dell’Europa. Il trattato, firmato già il 7 febbraio 1992 a Maastricht, ma entrato in vigore solo il 1º novembre 1993, una volta superati gli ostacoli sorti all’atto della ratifica (la popolazione danese ha acconsentito alla ratifica solo in un secondo referendum e in Germania è stato introdotto un ricorso costituzionale avverso l’approvazione parlamentare del trattato), si definisce come «una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa». Comprende l’atto costitutivo dell’Unione europea, che non ne rappresentava peraltro l’atto conclusivo. L’Unione europea non era subentrata alle Comunità europee con l’obiettivo di sostituirle, ma per radunarle sotto un tetto comune, assieme a nuove politiche e forme di cooperazione. Ciò ha portato, figurativamente, a fondare l’UE su tre pilastri. Il primo pilastro era costituito dalle Comunità europee: CEE (rinominata in CE), CECA (fino al 2002) ed Euratom. Il secondo pilastro era rappresentato dalla cooperazione tra gli Stati membri nella politica estera e di sicurezza comune. Il terzo pilastro riguardava la cooperazione tra gli Stati membri nei settori della giustizia e degli affari interni.

Un primo sviluppo nella realizzazione dell’UE si è registrato con i trattati di Amsterdam e di Nizza, entrati in vigore rispettivamente il 1º maggio 1999 e il 1º febbraio 2003. Lo scopo delle riforme apportate al trattato era quello di garantire il funzionamento anche in un’UE ampliata da un gran numero di nuovi Stati membri. Entrambi i trattati hanno perciò introdotto anzitutto riforme istituzionali. Rispetto alle riforme del passato, la volontà politica di approfondire il grado d’integrazione in Europa è apparsa molto più debole.

Le molteplici critiche mosse nei confronti di tali trattati hanno dato il via a un dibattito sul futuro dell’UE e sulla struttura delle sue istituzioni. Questa discussione ha portato all’adozione, da parte dei capi di Stato o di governo, della dichiarazione sul futuro dell’Unione europea, sottoscritta il 5 dicembre 2001 nella città belga di Laeken. Con essa l’UE s’impegnava ad agire in modo più democratico, trasparente ed efficiente e ad aprire la strada alla redazione di una costituzione. Un primo passo verso l’attuazione di tali obiettivi è stata la redazione di una costituzione europea da parte della convenzione sul futuro dell’Europa, presieduta dall’ex presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing. La proposta di «trattato che adotta una Costituzione per l’Europa», elaborata dalla convenzione, è stata ufficialmente presentata al presidente del Consiglio europeo il 18 luglio 2003 e adottata dai capi di Stato e di governo a Bruxelles il 17 e 18 luglio 2004 con vari emendamenti.

La costituzione prevedeva il superamento dell’Unione europea e della Comunità europea, fino a quel momento coesistenti, con l’istituzione di una nuova, unica Unione europea che doveva fondarsi su un unico trattato costituzionale. Quale comunità separata era destinata a rimanere la sola Comunità europea dell’energia atomica, strettamente legata però, come sino a oggi, alla nuova Unione europea. Queste spinte costituzionali sono però fallite nel processo di ratifica da parte degli Stati membri. Dopo aver ottenuto voti favorevoli in 13 degli allora 25 Stati membri, il trattato è stato bocciato in occasione dei referendum in Francia (con il 54,7 % dei voti contrari e una partecipazione del 69,3 %) e nei Paesi Bassi (con il 61,7 % di voti contrari e una partecipazione del 63 %).

Dopo un periodo di riflessione di quasi due anni, si è riusciti nella prima metà del 2007 ad approvare un nuovo pacchetto di riforme. Allontanandosi ufficialmente dal concetto di costituzione europea, tale pacchetto ha abbandonato l’idea di abrogare i trattati preesistenti e di sostituirli con un testo unitario dal titolo «trattato che adotta una Costituzione europea». È stato invece approvato un trattato modificativo che, in linea con i trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza, apporta profonde modifiche ai preesistenti trattati dell’UE per accrescere la capacità di azione dell’UE verso l’interno e verso l’esterno, per rafforzare la legittimazione democratica e, in generale, per migliorare l’efficacia dell’azione dell’UE. Il trattato di riforma, nella tradizione dei trattati, ha preso il nome di trattato di Lisbona. La redazione del trattato di Lisbona è proceduta a ritmo molto sostenuto, grazie soprattutto al fatto che, in occasione della riunione a Bruxelles del Consiglio europeo del 21 e del 22 giugno 2007, gli stessi capi di Stato o di governo hanno stabilito in dettaglio, nelle proprie conclusioni, come e in che misura le innovazioni previste dal trattato costituzionale dovevano essere accolte nei trattati preesistenti. Il Consiglio ha agito in modo del tutto atipico, non limitandosi, come generalmente accade, a fornire indicazioni generali lasciando ai governi il compito di darvi attuazione, bensì ha delineato la stessa struttura e il contenuto delle modifiche da apportare, arrivando persino in più occasioni a stabilire il contenuto preciso delle singole norme.

Tra i temi particolarmente controversi si annoverano la ripartizione delle competenze tra UE e Stati membri, lo sviluppo della politica estera e di sicurezza comune, il nuovo ruolo dei parlamenti nazionali nel processo di integrazione, l’inclusione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel diritto dell’UE, oltre ai possibili progressi della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. La conferenza intergovernativa convocata nel 2007 ha avuto perciò ben poco spazio d’azione, essendo chiamata unicamente ad attuare tecnicamente le modifiche richieste. I lavori della conferenza intergovernativa sono potuti così terminare già nei giorni 18 e 19 ottobre 2007, a seguito della legittimazione politica ottenuta nell’incontro informale del Consiglio europeo che si stava svolgendo negli stessi giorni a Lisbona.

Il trattato è stato infine sottoscritto dai capi di Stato o di governo degli allora 27 Stati membri dell’UE il 13 dicembre 2007 nell’ambito di una cerimonia ufficiale a Lisbona (la Croazia è entrata nell’UE nel 2013). Il processo di ratifica del trattato si è rivelato tuttavia estremamente difficile. A differenza del trattato costituzionale, il trattato di Lisbona ha superato lo scoglio della ratifica in Francia e nei Paesi Bassi, ma non è stato ratificato in Irlanda in seguito al primo referendum tenutosi il 12 giugno 2008 (con il 53,4 % dei voti contrari e una partecipazione del 53,1 %). Solo dopo aver ottenuto alcune garanzie sotto il profilo legale in merito alla portata (limitata) del nuovo trattato, i cittadini irlandesi sono stati nuovamente chiamati al voto nell’ottobre 2009; il trattato ha ottenuto questa volta un’ampia approvazione da parte della popolazione (67,1 % dei voti favorevoli e una partecipazione del 59 %). L’esito positivo del referendum in Irlanda ha aperto la strada per la ratifica del trattato di Lisbona anche in Polonia e Cechia. Il presidente polacco Kaczyński aveva subordinato la firma dell’atto di ratifica all’esito positivo del referendum in Irlanda. Anche il presidente ceco Václav Klaus ha voluto attendere l’esito del referendum irlandese prima di sottoscrivere il trattato, subordinando la ratifica alla garanzia che il trattato di Lisbona, e in particolare la Carta dei diritti fondamentali così introdotta nel trattato UE, non avrebbe intaccato in alcun modo i cosiddetti decreti di Beneš del 1945, con i quali si esclude la possibilità di qualsiasi rivendicazione territoriale sugli ex territori tedeschi nella Cechia. Una volta trovata una soluzione anche per questa richiesta, il 3 novembre 2009 Klaus ha firmato l’atto di ratifica. In tal modo il processo di ratifica si concludeva positivamente, consentendo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona il 1º dicembre 2009.

Con il trattato di Lisbona l’Unione europea e la Comunità europea vennero fuse in un’unica Unione europea. Il termine «Comunità» venne quindi sostituito uniformemente con il termine «Unione». L’Unione europea subentrò alla Comunità europea e ne divenne erede. Il diritto dell’UE rimane però caratterizzato dai tre trattati che seguono.

Trattati UE in vigore

Trattato sull’Unione europea

Il trattato sull’Unione europea (trattato UE/TUE) è suddiviso nei seguenti sei titoli: I. Disposizioni comuni, II. Disposizioni relative ai principi democratici, III. Disposizioni relative alle istituzioni, IV. Disposizioni sulle cooperazioni rafforzate, V. Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione e disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune, VI. Disposizioni finali.

Trattato sul funzionamento dell’Unione europea

Il trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) deriva dal trattato che istituisce la Comunità europea (trattato CE) e ne ricalca, in linea di massima, la struttura. Le modifiche sostanziali riguardano l’azione esterna dell’UE e l’introduzione di nuovi capitoli, in particolare in materia di politica energetica, cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, politica spaziale, sport e turismo.

Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica

Il trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (trattato Euratom) ha subito, solo in alcuni punti, specifiche modifiche riportate in protocolli allegati al trattato di Lisbona.

Il trattato sull’Unione europea e il trattato sul funzionamento dell’Unione europea hanno la medesima rilevanza giuridica e non sono in relazione di subordinazione. Questo espresso chiarimento del loro status giuridico si rende necessario, in quanto il tipo di norme contenute nei due trattati e il nuovo titolo del precedente trattato CE (trattato sul funzionamento dell’Unione europea) potrebbero far pensare che il trattato UE sia una sorta di costituzione o di trattato costitutivo, e che il TFUE sia concepito come un trattato esecutivo. Né il trattato UE né il TFUE hanno però natura costituzionale formale. La terminologia utilizzata in entrambi i trattati è espressione di questa modifica rispetto al precedente progetto di costituzione. Il termine «costituzione» non viene mai utilizzato, l’espressione «ministro degli Affari esteri dell’Unione» viene sostituita dall’espressione «alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza» e vengono eliminati i termini «legge» e «legge quadro». Analogamente i trattati modificati non contengono alcun articolo che citi i simboli dell’UE, come la bandiera o l’inno. La preminenza del diritto dell’UE non è sancita all’interno di disposizioni dei trattati, ma viene fatta derivare come in passato da una dichiarazione che fa riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea su tale questione.

 

Con il trattato di Lisbona viene inoltre abbandonato il «modello dei tre pilastri» dell’UE. Restano inoltre in vigore le procedure speciali in materia di politica estera e di sicurezza comune, compresa la difesa comune. Al trattato sono allegate le dichiarazioni della conferenza intergovernativa, a sottolinearne il carattere specifico e la particolare responsabilità degli Stati membri per tale ambito di attività politica.

Adesione all’UE

A seguito del recesso del Regno Unito, l’Unione europea conta attualmente 27 Stati membri. Tra questi rientrano innanzitutto i sei Stati fondatori della CEE, ovvero Belgio, Germania (estesa anche ai territori dell’ex Repubblica democratica tedesca dopo la riunificazione dei due Stati tedeschi, avvenuta il 3 ottobre 1990), Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il 1º gennaio 1973 hanno aderito la Danimarca (ad esclusione della Groenlandia, la cui popolazione si è espressa, con una ridotta maggioranza, contro la permanenza nell’area della Comunità europea con il referendum del febbraio 1982), l’Irlanda e il Regno Unito (che ha lasciato l’UE il 31 gennaio 2020); anche la prevista adesione della Norvegia è stata bocciata in occasione di un referendum tenutosi nell’ottobre del 1972 (53,5 % di voti sfavorevoli).

Il cosiddetto «allargamento a sud» dell’UE ha avuto inizio con l’adesione della Grecia il 1º gennaio 1981, seguita dalla Spagna e dal Portogallo, che hanno aderito il 1º gennaio 1986. All’allargamento a sud è seguita l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia il 1º gennaio 1995. L’adesione della Norvegia è fallita ancora una volta, come già 22 anni prima, per il «no» espresso dal 52,4 % della popolazione, chiamata nuovamente a decidere sull’adesione della Norvegia all’UE in occasione di un referendum. Il 1º maggio 2004 hanno aderito all’UE le repubbliche baltiche Estonia, Lettonia e Lituania e, tra i paesi dell’Europa centro-orientale, Cechia, Ungheria, Polonia, Slovenia e Slovacchia, oltre a due paesi insulari del bacino del Mediterraneo, Cipro e Malta. Con l’adesione, più di due anni dopo, il 1º gennaio 2007, della Bulgaria e della Romania, è proseguita la fase di allargamento a est.

L’ultimo Stato ad essere diventato membro dell’UE, il 1º luglio 2013, è la Croazia. La popolazione dell’Unione è cresciuta e conta ad oggi 447 milioni di persone. Questo storico allargamento dell’UE rappresenta il fulcro di un lungo processo, che ha permesso la riunificazione di popoli divisi per oltre mezzo secolo dalla guerra fredda e dalla cortina di ferro. Gli allargamenti dell’UE sono frutto prima di tutto della volontà di garantire pace, stabilità e benessere economico nel riunificato continente europeo.

L’UE è inoltre aperta all’adesione di altri paesi, purché questi soddisfino i criteri di adesione fissati dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993.

  • Criteri politici. Stabilità delle istituzioni, democrazia, Stato di diritto, garanzia dei diritti umani, rispetto e tutela delle minoranze.
  • Criteri economici. Esistenza di un’economia di mercato funzionante in grado di sopportare la pressione concorrenziale e le forze di mercato interne all’UE.
  • Criteri giuridici. Capacità di assunzione degli obblighi conseguenti all’adesione all’UE, compreso l’accordo con gli obiettivi dell’unione politica e dell’Unione economica e monetaria.

Il processo di adesione si articola in tre fasi, che devono essere approvate da tutti gli Stati membri attuali dell’UE:

  1. si apre la prospettiva di adesione per un paese;
  2. al paese viene assegnato lo status ufficiale di paese candidato non appena vengono soddisfatti i requisiti di adesione, ma ciò non significa che si aprono i negoziati ufficiali;
  3. con il paese candidato si avviano i negoziati formali di adesione, in cui si concordano le modalità e le procedure per il recepimento delle norme dell’UE in vigore.

Una volta completati i negoziati e le riforme di accompagnamento e raggiunta la soddisfazione di entrambe le parti, i risultati e le condizioni di adesione vengono definiti in un trattato di adesione. In primo luogo, il Parlamento europeo deve approvare il trattato di adesione con la maggioranza assoluta dei suoi membri. Il Consiglio deve quindi esprimere il consenso all’unanimità. La firma del trattato di adesione spetta poi ai capi di Stato o di governo dell’UE e del paese di adesione. Ogni trattato di adesione deve quindi essere ratificato dagli Stati membri dell’UE e dal paese di adesione in conformità alle rispettive disposizioni costituzionali. Con il deposito degli strumenti di ratifica si conclude la procedura di adesione ed entra in vigore il trattato di adesione. Il paese di adesione diviene quindi uno Stato membro.

Attualmente, sono in corso negoziati di adesione con la Turchia (dal 2005), il Montenegro (dal 2012), la Serbia (dal 2014), l’Albania e la Macedonia del Nord (dal 2022).

La Turchia ha presentato la domanda di adesione il 14 aprile 1987. I rapporti tra l’Unione europea e la Turchia sono iniziati però ben prima. Fin dal 1963 la CEE e la Turchia hanno stipulato un accordo di associazione nel quale veniva fatto riferimento a una sua possibile adesione. Nel 1995 è stata costituita un’unione doganale e nel dicembre 1999 il Consiglio europeo di Helsinki ha riconosciuto alla Turchia lo status ufficiale di paese candidato. Tale decisione è nata dalla consapevolezza che questo paese possiede le strutture fondamentali di un paese democratico, nonostante vi siano ancora da compiere molti progressi in materia di rispetto dei diritti dell’uomo e tutela delle minoranze. A seguito di una raccomandazione della Commissione, nel dicembre 2004 il Consiglio europeo ha dato il via libera ai negoziati per l’adesione della Turchia. Tali negoziati sono iniziati nell’ottobre del 2005, ma continuano a essere impegnativi. Ciò è dovuto in parte ai risultati ancora scarsi delp in materia di diritti umani, Stato di diritto, libertà dei media e lotta alla corruzione. Un ulteriore ostacolo è costituito dal fatto che sarà possibile aprire ai negoziati otto capitoli, e quindi chiudere provvisoriamente quelli già negoziati, soltanto dopo che la Turchia avrà ratificato il protocollo addizionale relativo a Cipro, allegato all’accordo di associazione di Ankara. L’obiettivo ultimo di tali negoziati è l’adesione, ma non vi è alcuna garanzia del suo conseguimento.

L’Islanda ha presentato la domanda di adesione il 17 luglio 2009. I negoziati di adesione sono stati ufficialmente avviati nel 2010; all’inizio sono stati condotti in modo spedito, ma dopo il cambio di governo hanno subito un arresto, per essere infine completamente interrotti in seguito al ritiro da parte dell’Islanda della domanda di adesione il 12 marzo 2015.

Nel 2022 l’UE ha concesso lo status di paese candidato alla Bosnia-Erzegovina, alla Moldova e all’Ucraina. La prospettiva di una futura adesione all’UE è stata inoltre aperta per il Kosovo1 e la Georgia.

È stata inoltre disciplinata l’ipotesi di recesso dall’UE, introducendo nel trattato UE la cosiddetta clausola di recesso (articolo 50) che prevede la possibilità per uno Stato membro di uscire dall’UE. Il trattato non prevede le condizioni per l’esercizio del recesso, ma stabilisce che occorre semplicemente concludere un accordo volto a definire le sue modalità; in mancanza di tale accordo, il trattato fissa il decorso di due anni dalla data di notifica dell’intenzione di recedere ai fini dell’efficacia del recesso anche senza accordo. D’altra parte, l’espulsione di uno Stato membro dall’UE contro la sua dichiarata volontà non è prevista, neppure in caso di violazioni gravi e persistenti dei trattati.

L’opzione di recesso è stata esercitata prima di quanto ci si sarebbe mai aspettati. Il 23 giugno 2016, in occasione di un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’UE, il 51,9 % dei britannici (con una partecipazione del 72,2 %) si sono espressi contro la permanenza nell’Unione europea, il che ha portato, il 29 marzo 2017, alla presentazione formale al Consiglio europeo della notifica del recesso del Regno Unito dall’UE e dalla Comunità europea dell’energia atomica. Tre anni dopo il referendum tenutosi nel Regno Unito e a seguito di negoziati estremamente turbolenti sull’accordo di recesso, il 31 gennaio 2020 è stato infine suggellato il recesso del Regno Unito dall’UE, dopo averne fatto parte per 47 anni. Il 1º gennaio 2021, scaduto il periodo transitorio il 31 dicembre 2020, il Regno Unito ha lasciato completamente l’UE e ha pertanto abbandonato in particolare il mercato unico europeo, l’unione doganale, le politiche dell’UE e gli accordi commerciali dell’UE. Le future relazioni dell’UE con il Regno Unito in quanto Stato non membro sono stabilite nell’accordo bilaterale sugli scambi commerciali e la cooperazione il quale, unitamente all’accordo di recesso, che ha disciplinato le basi del recesso, e alla dichiarazione politica, che delinea il quadro per i negoziati in materia di future relazioni tra il Regno Unito e l’UE, costituisce l’elemento centrale del recesso.

Due aspetti dell’accordo di recesso meritano particolare attenzione.

  • Il problema della frontiera irlandese

Dato che la soluzione di «salvaguardia» (backstop) imposta dall’UE che, al fine di evitare la creazione di una frontiera fisica tra l’Irlanda del Nord e l’Irlanda avrebbe costretto praticamente l’intero Regno Unito a un’unione doganale con l’UE, minacciava di rendere impossibile qualsiasi accordo, all’ultimo momento è stato trovato un accordo accettabile per entrambe le parti. Un protocollo all’accordo di recesso stabilisce inequivocabilmente che l’Irlanda del Nord fa parte del territorio doganale del Regno Unito. Gli accordi commerciali che il Regno Unito può concludere dopo la fine del periodo di transizione e l’uscita del paese dall’unione doganale dell’UE si applicano senza limitazione anche all’Irlanda del Nord. L’Irlanda del Nord avrà quindi una frontiera con l’Irlanda e quindi con il mercato interno e l’unione doganale dell’UE, una circostanza questa che, in teoria, richiederebbe altresì controlli sulle merci a tale frontiera. Tuttavia questo sarebbe in contrasto con l’accordo di pace di Belfast (il Good Friday Agreement) del 1998, firmato dopo 30 anni di violenza in Irlanda del Nord, noti come The Troubles. Nell’accordo di recesso è stato pertanto stabilito che la frontiera doganale tra il Regno Unito e l’UE sarebbe stata trasferita in mare tra il Regno Unito e l’Irlanda del Nord. L’Irlanda del Nord rimane pertanto soggetta a tutte le pertinenti normative doganali e di mercato dell’UE, in particolare alle normative in materia di circolazione delle merci, alle norme sanitarie, alle norme in materia di produzione, alle modalità di vendita di prodotti agricoli, alle norme in materia di imposta sul valore aggiunto e imposte sul consumo, così come alle norme in materia di controllo degli aiuti di Stato. I prodotti fabbricati in Irlanda del Nord possono essere introdotti in Irlanda (e da qui trasportati in qualsiasi luogo dell’UE) senza controlli alle frontiere. Tutte le altre merci e i prodotti importati in Irlanda del Nord saranno controllati dalle autorità doganali del Regno Unito presso porti o aeroporti. L’obiettivo principale è stabilire se tali merci e prodotti siano destinati esclusivamente ad uno dei mercati del Regno Unito o se comportino il «rischio» di essere introdotti attraverso l’Irlanda nell’area di mercato dell’UE. Un comitato misto si impegna a fissare limiti a tale «rischio» sulla base di determinati criteri (natura e valore del prodotto, uso per il consumo diretto o per un’ulteriore trasformazione, probabilità di abusi ecc.) e a prevedere eccezioni. Il trattamento tariffario è quindi determinato in funzione dell’assegnazione al rispettivo territorio doganale: se il prodotto è destinato al mercato dell’Irlanda del Nord, si applicano integralmente le norme doganali del Regno Unito; se invece sussiste il «rischio» che tali prodotti si ritrovino nel mercato interno dell’UE, si applica la normativa doganale dell’UE. Una volta scaduto il periodo di transizione, il parlamento dell’Irlanda del Nord può decidere a maggioranza semplice ogni quattro anni se intende continuare ad applicare le norme dell’UE. In caso di decisione negativa, le normative dell’UE cesseranno di essere valide anche in Irlanda del Nord dopo due anni. In tal caso, nell’arco di due anni, si dovrebbe definire un’altra soluzione, al fine di evitare la creazione di una frontiera fisica tra l’Irlanda del Nord e l’Irlanda.

  • Diritti reciproci dei cittadini

In considerazione del fatto che 3,2 milioni di cittadini dell’UE risiedono nel Regno Unito e che 1,2 milioni di cittadini britannici vivono nell’UE, la questione della protezione reciproca dei diritti dei cittadini è una priorità assoluta. Ai sensi dell’accordo di recesso, i cittadini dell’UE e del Regno Unito che hanno esercitato il loro diritto di soggiorno nei rispettivi territori prima della fine del periodo di transizione (31 dicembre 2020), e che continuano a soggiornarvi successivamente a tale data, godono a vita di tutti i diritti di cui beneficiavano prima del recesso. Ciò si applica anche ai loro familiari. Anche dopo la scadenza del periodo di transizione, tali soggetti possono continuare a vivere, lavorare o studiare nel paese in questione. Il/la coniuge, i figli o i nipoti che vivono in un altro paese possono trasferirsi nel territorio di tale familiare in qualsiasi momento. Gli aventi diritto conservano altresì tutti i diritti all’assistenza sanitaria e ad altre prestazioni di sicurezza sociale. È garantito il riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali. Qualsiasi discriminazione basata su motivi di cittadinanza continuerà ad essere vietata anche una volta scaduto il periodo di transizione. I soggetti in questione godono della piena parità di trattamento, in particolare per quanto concerne la parità di diritti e di opportunità nell’accesso all’occupazione e all’istruzione. Tuttavia tali diritti non si applicheranno più automaticamente. I cittadini dell’UE devono ad esempio aver dimostrato il loro status di soggiornante di lungo periodo nel Regno Unito entro giugno 2021. In caso di mancato rispetto di tale termine, detto status può essere ottenuto soltanto in presenza di motivi imperativi che giustifichino la presentazione tardiva della domanda.

L’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione è stato firmato il 30 dicembre 2020. È stato applicato in via provvisoria dal 1º gennaio 2021 ed è entrato in vigore definitivamente il 1º maggio 2021.

L’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione istituisce, tra l’altro, un partenariato economico di ampia portata, che si basa sostanzialmente su un accordo di libero scambio, il quale non prevede dazi né quote ed evita quindi notevoli ostacoli al commercio. Tuttavia un partenariato di questo tipo necessita anche di condizioni giuridiche. Per questo motivo entrambe le parti hanno concordato norme di ampia portata per garantire una concorrenza leale. Tali norme riguardano gli aiuti di Stato e norme in materia di tutela dei consumatori, protezione dei lavoratori, ambiente e clima. Tuttavia non si potrebbe parlare di un vero e proprio partenariato economico se le relazioni future non andassero al di là delle questioni commerciali. L’UE e il Regno Unito hanno pertanto concordato anche il quadro della futura cooperazione in numerosi altri settori, tra cui figurano i servizi le qualifiche professionali, gli appalti pubblici, le questioni in materia di ambiente ed energia, il trasporto aereo, marittimo e ferroviario di merci nonché le norme in materia di sicurezza sociale oppure ricerca e sviluppo. Nel quadro dell’accordo, il Regno Unito continuerà a partecipare anche in futuro a una serie di programmi dell’UE. Al fine di tenere conto della stretta interdipendenza e prossimità geografica dell’UE e del Regno Unito, l’accordo istituisce altresì uno stretto partenariato in materia di sicurezza, che consente la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni. Nella pratica entrambe le parti continueranno a cooperare strettamente nel contesto della lotta contro la criminalità, ad esempio attraverso Europol (l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto), e a coordinarsi congiuntamente nella lotta contro il riciclaggio di denaro, la criminalità transnazionale e il terrorismo. L’accordo disciplina altresì lo scambio di dati reciproco, quali ad esempio i dati dei passeggeri di voli aerei o gli estratti dei casellari giudiziari. Contrariamente a quanto auspicato dall’UE, l’accordo non contiene disposizioni in materia di cooperazione nel settore della politica estera e di sicurezza. L’UE e il Regno Unito rimangono partner importanti nel contesto della NATO, dell’OSCE o delle Nazioni Unite.

I VALORI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA

Articolo 2 TUE (valori dell’Unione)

L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.

Articolo 3 TUE (scopi dell’Unione)

  1. L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli.
  2. L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e lotta contro quest’ultima.
  3. L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.

    L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore.

    Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri.

    Essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo.

  4. L’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro.
  5. Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite.

[...]

La costruzione di un’Europa unita si fonda sui valori e sugli ideali fondamentali che gli Stati membri hanno riconosciuto all’articolo 2 TUE e di cui gli organi esecutivi dell’UE sono gli artefici. Tra questi figurano: il rispetto della dignità umana, l’uguaglianza, la libertà e la solidarietà. L’UE si fonda esplicitamente sui principi di libertà e democrazia e sul rispetto dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri. Inoltre è vincolata alla tutela dei diritti dell’uomo.

Questi principi non sono solo vincolanti per gli Stati che intendono aderire in futuro all’UE, ma le violazioni gravi e persistenti di tali principi e valori da parte di uno Stato membro possono essere sanzionate ai sensi dell’articolo 7 TUE. A tal fine è necessaria la constatazione unanime da parte dei capi di Stato o di governo del Consiglio europeo dell’esistenza di una violazione grave e persistente dei valori e dei principi dell’UE. Tale constatazione è effettuata dai capi di Stato o di governo su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo. Il Consiglio dell’Unione europea può quindi decidere, deliberando a maggioranza qualificata, di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati UE e TFUE, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato in seno al Consiglio. Per contro, lo Stato in questione resta in ogni caso vincolato agli obblighi che gli derivano dai suddetti trattati. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche.

L’Unione europea, garante della pace

L’esigenza di garantire la pace è il più forte tra gli argomenti a favore dell’unità europea (cfr. articolo 3 TUE). Durante il secolo scorso, due guerre mondiali hanno visto contrapposti Stati europei che oggi fanno parte dell’UE. Una politica per l’Europa è pertanto sinonimo di politica per la pace. Con l’istituzione dell’UE si è creata la base di un ordinamento europeo fondato sulla pace che esclude qualsiasi possibilità di una nuova guerra tra i paesi membri. Più di settant’anni di pace in Europa ne sono la conferma. Questa politica acquista sempre maggiore forza con l’adesione all’UE da parte di nuovi Stati. L’ultimo allargamento dell’UE ha rappresentato un importante contributo per la politica della pace. Nel 2012 l’UE ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per aver contribuito alla pace, alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani.

Ma la pace in Europa non può essere data per scontata, come dimostrato dall’aggressione militare non provocata e ingiustificata della Russia nei confronti dell’Ucraina. Piuttosto l’Unione deve svolgere un ruolo di pacificazione al di là della zona di pace creata all’interno dell’UE. La cooperazione tra Stati membri in materia di politica estera e di sicurezza dovrebbe offrire maggiori possibilità in tal senso.

Unità e uguaglianza come temi conduttori

Un tema conduttore è l’unità. Solo quando gli Stati europei saranno in grado di cooperare e agire insieme nel rispetto della loro diversità, sarà possibile risolvere i grandi problemi del presente. A parere di molti, senza l’integrazione europea non è possibile conseguire e garantire in futuro la pace in Europa e nel mondo, la democrazia e lo Stato di diritto, la prosperità economica e il benessere sociale. I cambiamenti climatici, la disoccupazione, l’insufficiente crescita economica, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico e l’inquinamento ambientale da tempo ormai non sono più problemi dei singoli Stati, né possono essere risolti a livello nazionale. Solo nell’ambito dell’UE è possibile realizzare un ordinamento economico stabile, e solo attraverso uno sforzo comune dei paesi europei è possibile arrivare a una politica economica internazionale che consolidi la competitività dell’economia europea e sostenga allo stesso tempo il conseguimento degli obiettivi climatici e il consolidamento dei fondamenti sociali dello Stato di diritto. Senza coesione interna, l’Europa non sarà in grado di affermare la sua indipendenza politica ed economica dal resto del mondo, né di recuperare la propria influenza sulla scena internazionale e avere un ruolo nella politica mondiale.

L’unità può esistere solo dove regna l’uguaglianza. Nessun cittadino dell’UE può essere oggetto di «discriminazione» a motivo della sua nazionalità. Si deve combattere qualsiasi disparità di trattamento fondata sul sesso, sulla razza, sull’origine etnica, sulla religione o sull’ideologia, sulla disabilità, sull’età o sull’orientamento sessuale. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si ferma però qui, vietando inoltre qualsiasi forma di discriminazione sulla base del colore della pelle, delle caratteristiche genetiche, della lingua, delle opinioni politiche o di altra natura, dell’appartenenza a una minoranza, delle condizioni economiche o della nascita. Tutti i cittadini UE sono uguali di fronte alla legge. In virtù di tale principio, nessuno Stato membro può prevalere su un altro e le differenze naturali quali, ad esempio, la superficie di un paese o la popolazione, e strutturali possono essere prese in considerazione soltanto nel rispetto dell’uguaglianza.

Le libertà fondamentali

Corollario della pace, dell’unità e dell’uguaglianza è la libertà. La creazione di una zona più ampia, tramite il collegamento di oramai 27 Stati, garantisce allo stesso tempo la libertà di movimento al di là delle frontiere nazionali. Si tratta principalmente di libera circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, libera circolazione delle merci e dei capitali. Le libertà fondamentali consentono alle imprese di prendere decisioni, ai lavoratori di scegliere liberamente il luogo di lavoro e ai consumatori di disporre di una più ampia gamma di prodotti. La libera concorrenza apre alle imprese sbocchi infinitamente più ampi. I lavoratori possono cercare un posto di lavoro, o cambiarlo in funzione delle loro qualifiche e dei loro interessi, in tutto il territorio dell’UE. L’offerta considerevolmente più ricca di prodotti per effetto della maggiore concorrenza offre al consumatore la possibilità di scegliere quelli più a buon mercato e con le caratteristiche migliori.

Tuttavia, nel caso dell’adesione di un paese all’UE, il trattato di adesione prevede spesso disposizioni transitorie, in particolare per quanto riguarda la libera circolazione dei lavoratori e la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, che consentono agli attuali Stati membri dell’UE di regolare la rivendicazione di queste libertà fondamentali per i cittadini dei paesi candidati fino a sette anni sulla base del diritto nazionale o degli accordi bilaterali esistenti.

Il principio della solidarietà

La solidarietà è il correttivo necessario della libertà: l’abuso della libertà va, infatti, sempre a scapito di altri. Di conseguenza un ordinamento UE, per durare nel tempo, deve considerare la solidarietà come principio fondamentale e distribuire i vantaggi, quali il benessere, e gli oneri in maniera equa e uniforme tra tutti i suoi membri.

Il rispetto dell’identità nazionale

L’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri. L’UE non deve essere una fusione di Stati, bensì un’unione di Stati membri che conservano le loro caratteristiche nazionali. È questa diversità di caratteristiche e di identità nazionali che conferisce all’UE la sua forza morale, che essa mette al servizio di tutti.

Il bisogno di sicurezza

Tutti questi valori fondamentali sono infine corollari della sicurezza. Specialmente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e gli attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa con sempre maggior frequenza e crudeltà, la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata sono tornati a essere temi centrali in Europa. Si registra una cooperazione di polizia e giudiziaria sempre più stretta e viene rafforzata la protezione dei confini esterni.

Nel contesto europeo sicurezza significa anche sicurezza sociale per i cittadini che vivono nell’UE, sicurezza del posto di lavoro, sicurezza delle misure decise dalle imprese, che devono poter contare sulla stabilità del quadro economico. Le istituzioni dell’UE sono chiamate a garantire che i cittadini e le imprese possano programmare il proprio futuro, dando stabilità ai rapporti da cui dipendono.

I diritti fondamentali

Tra i valori e gli ideali fondamentali su cui si fonda l’UE rientrano anche i diritti soggettivi dei cittadini. La storia dell’Europa è caratterizzata, da oltre due secoli, da sforzi costanti volti a rafforzare la tutela di tali diritti. A partire dalle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino del XVIII secolo, i diritti e le libertà fondamentali sono parte integrante delle costituzioni della maggior parte dei paesi civili, in particolare degli Stati membri dell’UE. Gli ordinamenti giuridici di questi ultimi si basano infatti sulla salvaguardia dei diritti, nonché sul rispetto della dignità, della libertà e delle possibilità di sviluppo della persona umana. Esistono inoltre numerosi accordi internazionali in materia, fra i quali riveste estrema importanza per l’Europa la convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

Tuttavia la protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico dell’UE si è sviluppata solo sulla base di una giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, le cui origini si situano relativamente tardi, e precisamente nel 1969. In realtà, in un primo tempo, la Corte di giustizia aveva respinto tutti i ricorsi in materia di diritti fondamentali, a motivo del fatto che le questioni di diritto costituzionale nazionale non erano di sua competenza. La Corte ha quindi dovuto rivedere la sua posizione, soprattutto sulla base del principio, da essa stessa sancito, della preminenza del diritto comunitario sul diritto nazionale, in quanto tale principio può affermarsi unicamente se il diritto dell’UE è in grado di per sé di assicurare una protezione dei diritti fondamentali pari a quella garantita dalle costituzioni nazionali.

Punto di partenza di tale giurisprudenza fu la causa Stauder, nella quale il beneficiario di una pensione di guerra aveva considerato un’offesa alla propria dignità personale e una violazione del principio di uguaglianza il fatto di dover dichiarare il proprio nome per l’acquisto del cosiddetto «burro di Natale». Anche se in un primo momento la Corte di giustizia era giunta alla conclusione che l’indicazione del nome non era necessaria alla luce delle disposizioni dell’UE, e che era pertanto superfluo l’accertamento della violazione del diritto fondamentale, essa dichiarava, in conclusione, che anche il rispetto dei diritti fondamentali rientra tra i principi generali dell’ordinamento giuridico dell’UE che la Corte di giustizia è tenuta a fare rispettare. In tal modo la Corte di giustizia ha riconosciuto per la prima volta l’esistenza di un ordinamento giuridico dell’UE.

Anzitutto la Corte ha fondato la salvaguardia dei singoli diritti fondamentali su talune disposizioni dei trattati. Si è mossa in tal senso per i numerosi divieti di discriminazione che sono espressione dei diversi aspetti del principio generale dell’uguaglianza. Tra questi figurano il divieto di qualsivoglia trattamento discriminatorio esercitato a motivo della nazionalità (articolo 18 TFUE); la lotta contro qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (articolo 10 TFUE); la parità di trattamento per merci e persone nell’ambito delle quattro libertà fondamentali: libera circolazione delle merci (articolo 34 TFUE), libera circolazione delle persone (articolo 45 TFUE), libertà di stabilimento (articolo 49 TFUE) e libera prestazione dei servizi (articolo 57 TFUE); la libertà di concorrenza (articolo 101 e segg. TFUE), nonché la parità di retribuzione tra uomini e donne (articolo 157 TFUE). Sono inoltre garantiti esplicitamente la libertà di associazione (articolo 169 TFUE), il diritto di petizione (articolo 24 TFUE) e la protezione dei segreti commerciali e del segreto professionale (articolo 339 TFUE).

La Corte di giustizia ha costantemente sviluppato tali basi di una protezione giuridica comunitaria dei diritti fondamentali, integrandoli con altri analoghi, e riconoscendo a tal fine principi giuridici generali che ha applicato ispirandosi a tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e a convenzioni internazionali per la protezione dei diritti dell’uomo dei quali gli Stati membri sono parti. Tra queste ultime spicca la CEDU che, nel formulare l’essenza dei diritti fondamentali propri dell’UE, ne definisce i meccanismi di salvaguardia. Su tale base la Corte di giustizia ha elevato al rango di diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico dell’UE una serie di libertà, tra cui il diritto di proprietà, il libero esercizio di una professione, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di opinione, i diritti generali della personalità, la protezione della famiglia (per esempio in materia di diritti dei familiari dei lavoratori migranti, tra cui il diritto al ricongiungimento), la libertà in campo economico, la libertà di religione o di culto, nonché taluni diritti fondamentali procedurali, quali il diritto a essere ascoltato dal giudice, il diritto alla riservatezza della corrispondenza tra avvocato e assistito, vale a dire il «legal privilege» previsto dalla «common law», il divieto della doppia pena o l’obbligo di motivazione degli atti giuridici dell’UE.

Primo piano di una locomotiva con un operaio che indossa indumenti di sicurezza, in piedi sulla banchina destra, che sorveglia la locomotiva.

La causa Eugen Schmidberger riguardava una manifestazione di protesta sull’autostrada del Brennero che portò a un blocco completo del traffico per 30 ore sul passo del Brennero.

Particolare importanza riveste il principio della parità di trattamento, invocato con una certa frequenza nelle controversie. Nel senso più generale del termine, tale principio significa che situazioni equiparabili non possono essere trattate in maniera diversa, a meno che una simile differenza non sia obiettivamente giustificata. Grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, il diritto dell’UE dispone di un notevole fondamento costituito da principi dello Stato di diritto associati ai diritti fondamentali. Estrema importanza pratica riveste in tal senso il principio della proporzionalità. Implica l’obbligo di valutare i diversi interessi in gioco, il che a sua volta richiede una valutazione dell’idoneità e della necessità di una misura sulla base del principio di proporzionalità. Tra i principi generali del diritto correlati ai diritti fondamentali vanno poi annoverati i principi generali del diritto amministrativo e del «due process» quale, ad esempio, il principio del legittimo affidamento, il divieto di retroattività di atti sfavorevoli e di ritiro o revoca di atti che conferiscono diritti o vantaggi, nonché il principio dei «diritti alla difesa», che si applica sia nei procedimenti amministrativi della Commissione europea che nei procedimenti dinanzi alla Corte di giustizia. Grande importanza assume anche l’esigenza di una maggiore trasparenza che consenta l’adozione di misure il più possibile vicine e comprensibili al cittadino. Un elemento cruciale di tale trasparenza è che qualsiasi cittadino europeo e persona giuridica con sede in uno Stato membro può accedere ai documenti del Consiglio dell’UE e della Commissione europea. Devono altresì essere resi pubblici tutti i versamenti effettuati a favore di persone fisiche o giuridiche con fondi del bilancio dell’UE. A tal fine vengono predisposte banche dati accessibili a tutti i cittadini dell’UE.

Pur riconoscendo l’operato della Corte di giustizia nella definizione dei diritti fondamentali non codificati, si è constatato tuttavia che l’individuazione per via giurisprudenziale dei «diritti fondamentali europei» presentava un grave inconveniente: la Corte di giustizia doveva limitarsi ai singoli casi specifici. In tali condizioni, non era in grado di sancire dei diritti fondamentali partendo dai principi generali del diritto in tutti i campi in cui ciò era necessario o auspicabile, né le era possibile determinare la portata e i limiti della protezione giuridica procedendo alle necessarie generalizzazioni e differenziazioni. Ciò non consentiva alle istituzioni dell’UE di valutare con sufficiente precisione il rischio di violare un diritto fondamentale. Anche il cittadino dell’UE direttamente interessato non era sempre in grado di giudicare se era stato infranto uno dei suoi diritti fondamentali.

Una soluzione è stata considerata per lungo tempo l’adesione dell’UE alla CEDU. Tuttavia, nel suo parere 2/94 la Corte di giustizia aveva dichiarato che, considerato lo stato del diritto dell’UE di allora, l’UE non aveva le competenze per aderire alla CEDU. A questo proposito la Corte rilevava che, sebbene la salvaguardia dei diritti dell’uomo fosse una premessa della legalità degli atti dell’UE l’adesione alla CEDU avrebbe implicato un cambiamento sostanziale della struttura dell’Unione, in quanto avrebbe comportato l’inserimento dell’UE in un sistema istituzionale distinto, internazionale, nonché l’integrazione di tutte le disposizioni della convenzione nell’ordinamento giuridico dell’UE. Secondo la Corte, una simile modifica del regime di protezione dei diritti dell’uomo nell’UE, con le sue implicazioni istituzionali sia per l’UE sia per gli Stati membri, avrebbe avuto una tale portata costituzionale che, per la sua stessa natura, sarebbe andata al di là dei poteri conferiti dall’articolo 352 TFUE. Questa carenza è stata risolta con il trattato di Lisbona. L’adesione dell’UE alla CEDU è ora esplicitamente prevista all’articolo 6, paragrafo 2, TUE. I negoziati di adesione sono stati avviati subito nel 2010. Nella primavera del 2013 è stato raggiunto un accordo sulla proposta di trattato di adesione. La Commissione ha inviato questa proposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea e ha chiesto un parere sulla compatibilità con il diritto dell’UE. Nel suo parere 2/13, la Corte ha concluso che il progetto di accordo sull’adesione dell’UE alla CEDU, nella sua forma prevista, non era compatibile con il diritto dell’UE, in quanto comportava il rischio, in merito a diversi aspetti, di pregiudicare le caratteristiche specifiche e l’autonomia del diritto dell’UE.

L’azienda di trasporti Schmidberger pretendeva dalla Repubblica d’Austria, le cui autorità non avevano vietato la manifestazione, il risarcimento dei danni dovuti al blocco. La Corte di giustizia rilevò che il mancato divieto della manifestazione costituiva un ostacolo alla libera circolazione delle merci, ma era oggettivamente giustificato. La decisione era servita a rispettare i diritti fondamentali dei manifestanti in materia di libertà di opinione e di riunione, garantiti dalla costituzione austriaca e dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, non fu possibile accusare le autorità austriache di violazione del principio di responsabilità.

Un punto critico importante in tale contesto consisteva nel fatto che, in caso di adesione dell’UE alla CEDU, la Corte di giustizia avrebbe dovuto essere vincolata alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e anche la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione sarebbe stata soggetta alla vigilanza sui diritti umani della Corte dei diritti dell’uomo. Secondo il parere dei giudici, ciò era contrario ai principi strutturali fondamentali dell’UE. Sebbene dopo questa pronuncia l’adesione dell’Unione europea alla CEDU resti teoricamente possibile, per il momento viene in pratica esclusa, poiché è necessario prima modificare una serie di dettagli tecnici nella proposta di adesione.

Indipendentemente dall’adesione dell’UE alla CEDU, il trattato di Lisbona ha compiuto un altro decisivo passo avanti verso la formazione di un sistema di diritti fondamentali dell’UE, creando nuove basi per la tutela dei diritti fondamentali all’interno dell’UE. In un nuovo articolo sui diritti fondamentali (articolo 6 TUE), l’azione delle istituzioni dell’UE e degli Stati membri nell’ambito dell’esercizio della loro attività, ogniqualvolta applichino e attuino il diritto dell’UE, è soggetta alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che è giuridicamente vincolante a livello dell’UE tramite un rinvio presente nell’articolo sui diritti fondamentali. La Carta dei diritti fondamentali nasce da un progetto redatto dalla convenzione composta da 16 delegati dei capi di Stato e di governo, dal presidente della Commissione europea, da 16 membri del Parlamento europeo e da 30 parlamentari nazionali (due per ciascuno dei 15 Stati all’epoca membri dell’UE), sotto la presidenza del prof. Roman Herzog. In occasione della riunione del Consiglio europeo svoltasi a Nizza il 7 dicembre 2000 tale documento è stato solennemente proclamato con la denominazione di «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea» dai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio dell’UE e della Commissione europea. Nell’ambito dei colloqui per la redazione di una costituzione europea, la Carta dei diritti fondamentali è stata rielaborata e inserita come parte integrante nel trattato costituzionale del 29 ottobre 2004. Dopo il fallimento del trattato costituzionale, il 12 dicembre 2007 la Carta dei diritti fondamentali è stata di nuovo adottata solennemente a Strasburgo quale atto autonomo, con il titolo «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea» dai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio dell’UE e della Commissione europea. Il trattato UE rinvia oggi in modo vincolante a questa versione della Carta dei diritti fondamentali, che acquisisce così carattere vincolante e definisce il campo di applicazione dei diritti fondamentali all’interno dell’UE. Tuttavia ciò non si applica alla Polonia, in quanto tale Stato membro non ha voluto riconoscere il valore vincolante della Carta, temendo di dover abbandonare o quanto meno modificare, in virtù dei diritti fondamentali riconosciuti nella Carta, determinate posizioni nazionali in particolare in tema di religione e credo. Per la Polonia il divieto di atti contrari ai diritti fondamentali deriva pertanto non dalla Carta, ma come in precedenza dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di diritti fondamentali.

IL METODO DI UNIFICAZIONE EUROPEA

L’unificazione europea è caratterizzata da due concezioni della collaborazione tra gli Stati europei, nate in modo diverso. Tali concezioni possono essere definite con i termini cooperazione e integrazione. A queste si è aggiunta come ulteriore metodo la cooperazione rafforzata.

La cooperazione tra gli Stati

La natura della cooperazione consiste nella volontà degli Stati nazionali di cooperare con altri Stati superando i propri confini nazionali, salvaguardando al contempo la propria sovranità. L’impegno di unificazione basato sulla cooperazione non è diretto alla creazione di un nuovo Stato unico, ma si limita a collegare gli Stati sovrani in una federazione di Stati, in cui vengono conservate le strutture nazionali (confederazione). Il principio della cooperazione è alla base del funzionamento del Consiglio d’Europa e dell’OCSE.

Il concetto di integrazione

Il concetto di integrazione supera la tradizionale vicinanza degli Stati nazionali. La concezione tramandata dell’inviolabilità e dell’indivisibilità della sovranità degli Stati differisce dalla convinzione che l’ordine imperfetto della coesistenza umana e degli Stati, l’inadeguatezza intrinseca del sistema nazionale e i numerosi abusi di potere di uno Stato sugli altri che si sono susseguiti nella storia europea (la cosiddetta egemonia), possano essere superati soltanto se le singole sovranità nazionali si raggruppano sotto una sovranità comune e si uniscono a un livello superiore in una comunità sovranazionale (federazione).

L’Unione europea è una creazione di questo concetto di integrazione, senza che si giunga a una fusione della sovranità nazionale. Gli Stati membri non erano infatti disposti a rinunciare alla struttura del proprio Stato nazionale, appena riconquistata e consolidata dopo la seconda guerra mondiale, a favore di uno Stato federale europeo. Era quindi necessario giungere a un compromesso che, senza dover ricorrere alla creazione di uno Stato federale europeo, assicurasse più di una semplice cooperazione tra gli Stati. La soluzione consisteva nel graduale superamento dell’opposizione tra la conservazione dell’autonomia nazionale e lo Stato federale europeo. Gli Stati membri non erano tenuti a cedere completamente la loro sovranità, ma solo ad abbandonare il dogma della sua indivisibilità. Si trattava quindi solo di determinare innanzitutto le aree specifiche in cui gli Stati membri erano disposti a rinunciare volontariamente a una parte della propria sovranità a favore di una comunità sovraordinata. Il risultato di questo impegno è visibile nei tre trattati istitutivi: CECA, CE(E) ed Euratom.

In quei trattati e nei trattati odierni dell’UE sono elencate in dettaglio le aree in cui i diritti sovrani sono stati trasferiti all’UE. All’Unione europea e alle sue istituzioni non viene quindi conferito il potere generale di adottare le misure necessarie per il conseguimento degli obiettivi dei trattati, ma la natura e l’entità dei poteri di azione sono il risultato delle rispettive disposizioni dei trattati (principio della competenza di attribuzione). In questo modo la rinuncia ai propri poteri rimane trasparente e controllabile da parte degli Stati membri.

La cooperazione rafforzata

Con lo strumento della cooperazione rafforzata si crea la base per l’attuazione dell’idea di integrazione a diverse velocità. Anche gruppi ristretti di Stati membri devono ottenere l’opportunità di progredire nell’integrazione in una particolare area di competenza dell’UE, senza venire ostacolati in questo processo dagli Stati membri titubanti o contrari.

Dopo un periodo iniziale in cui le condizioni e le procedure per l’utilizzo di questo strumento erano ancora molto rigide (trattato di Amsterdam), esse sono divenute più aperte in vista dell’allargamento dell’Unione europea (trattato di Nizza). Il trattato di Lisbona riunisce le disposizioni finora vigenti in materia di cooperazione rafforzata nell’articolo 20 TUE (condizioni quadro) e negli articoli da 326 a 334 TFUE (condizioni supplementari, adesione, procedure, regole di voto).

Le disposizioni per la cooperazione rafforzata possono essere sintetizzate come segue.

  • Una cooperazione di questo tipo trova applicazione solo nel quadro delle competenze esistenti dell’UE ed è intesa a promuovere la realizzazione degli obiettivi dell’UE, nonché a rafforzare il processo di integrazione europea (articolo 20 TUE). Non è pertanto idonea a ridurre le carenze dell’Unione economica e monetaria insite nell’architettura del trattato dell’UE. La cooperazione rafforzata non può recare pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica e sociale dell’UE. Non può costituire un ostacolo né una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri, né può provocare distorsioni di concorrenza (articolo 326 TFUE). Si devono rispettare le competenze, i diritti, i doveri e gli interessi degli Stati membri che non partecipano alla cooperazione (articolo 327 TFUE).
  • La cooperazione rafforzata deve essere aperta a tutti gli Stati membri. Gli Stati membri devono inoltre poter partecipare alla cooperazione in qualsiasi momento, a condizione che gli Stati membri partecipanti rispettino le decisioni adottate nell’ambito della cooperazione rafforzata. La Commissione e gli Stati membri si adoperano per fare in modo che il maggior numero possibile di Stati membri partecipino alla cooperazione rafforzata (articolo 328 TFUE).
  • La cooperazione rafforzata può essere utilizzata solo come ultima risorsa quando il Consiglio conclude che gli obiettivi ricercati con detta cooperazione non possono essere conseguiti entro un termine ragionevole applicando le pertinenti disposizioni dei trattati. La soglia minima per una cooperazione rafforzata è pari a nove Stati membri (articolo 20, paragrafo 2, TUE).
  • Gli atti giuridici adottati nel quadro di una cooperazione rafforzata non fanno parte dell’acquis dell’Unione. Questi atti vincolano solo gli Stati membri che partecipano al processo decisionale (articolo 20, paragrafo 4, TUE). Tuttavia gli Stati membri non partecipanti al processo non ostacolano l’attuazione di tali atti.
  • Le spese derivanti dalla cooperazione rafforzata diverse dalle spese amministrative sono a carico degli Stati membri partecipanti, salvo che il Consiglio, deliberando all’unanimità dei membri previa consultazione del Parlamento europeo, non disponga altrimenti (articolo 332 TFUE).
  • Il Consiglio e la Commissione devono assicurare la coerenza delle azioni intraprese nel quadro di una cooperazione rafforzata con le altre azioni politiche dell’UE (articolo 334 TFUE).

Nella pratica questo strumento viene utilizzato sempre più frequentemente: per la prima volta nella storia dell’UE, gli Stati membri hanno utilizzato la procedura di cooperazione rafforzata per adottare un provvedimento che consenta alle coppie di diverse nazionalità di scegliere la legge applicabile al divorzio. In seguito a una proposta della Commissione del 2006, che non ha raggiunto l’unanimità necessaria in seno al Consiglio, quest’ultimo, con decisione del 12 luglio 2010, ha autorizzato la cooperazione rafforzata. Sulla base di una nuova proposta della Commissione, inizialmente 14 Stati membri (Belgio, Bulgaria, Germania, Spagna, Francia, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Austria, Portogallo, Romania e Slovenia) si sono accordati sulle norme corrispondenti in caso di divorzio o separazione di coppie di diverse nazionalità, cui si sono aggiunti successivamente Lituania (2014), Grecia (2015) ed Estonia (2018). Il risultato è riportato nel regolamento (UE) n. 1259/2010 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. Tale cooperazione rafforzata è stata ampliata nel 2016 con l’aggiunta del regolamento (UE) 2016/1103 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi.

Un ulteriore caso di applicazione riguarda la tutela brevettuale in Europa. Senza la Spagna e la Croazia e con la successiva partecipazione dell’Italia, 25 Stati membri dell’UE hanno convenuto sull’attuazione di una cooperazione rafforzata per l’istituzione di una tutela brevettuale unitaria. Il regolamento (UE) 1257/2012 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore di una tutela brevettuale unitaria e il regolamento (UE) 1260/2012 sul regime di traduzione applicabile sono entrati in vigore il 20 gennaio 2013. Tuttavia i regolamenti saranno applicati solo con l’entrata in vigore dell’accordo su un tribunale unificato dei brevetti. Ciò richiede la ratifica dell’accordo da parte di almeno 13 Stati membri.

Infine, a seguito di una cooperazione rafforzata, è stata istituita anche la Procura europea (EPPO). Ai sensi del trattato di Lisbona, l’UE è stata autorizzata a istituire tale ufficio (articolo 86 TFUE) mediante un regolamento adottato all’unanimità dal Consiglio previa approvazione da parte del Parlamento europeo. Con il regolamento (UE) 2017/1939 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea il Consiglio si è infine avvalso di tale competenza nel quadro della cooperazione rafforzata, in quanto non è stato possibile raggiungere la necessaria unanimità in seno al Consiglio. Finora 22 Stati membri hanno partecipato a tale cooperazione rafforzata.

LA «COSTITUZIONE» DELL’UNIONE EUROPEA

Ogni compagine sociale dispone di una costituzione che stabilisce la struttura del suo sistema politico. Sono così regolati i rapporti fra i singoli membri, nonché tra questi e il sistema nel suo complesso; sono fissati gli obiettivi comuni e determinate le norme in base alle quali vengono adottate, con valore vincolante, le decisioni. La «costituzione» dell’UE, intesa quale sistema associato di Stati al quale sono stati trasferiti compiti e funzioni ben determinate, deve essere in grado di rispondere ai problemi al pari della costituzione di uno Stato.

Le collettività statali sono rette da due principi costitutivi supremi: lo Stato di diritto e la democrazia. Tutto ciò che l’UE mette in atto, se intende conformarsi a tali principi, deve essere fondato giuridicamente e democraticamente: creazione, organizzazione, competenze, funzionamento, posizione degli Stati membri e delle loro istituzioni, posizione del cittadino.

A seguito del fallimento del trattato costituzionale del 29 ottobre 2004, la «costituzione» dell’UE continua a non avere una formulazione unitaria all’interno di un singolo atto, come accade per i singoli Stati membri, ma è formata da un insieme di regole e valori ai quali i soggetti responsabili si attengono in maniera vincolante. Queste regole sono in parte sancite nei trattati europei, negli atti emanati dalle istituzioni dell’UE o nella giurisprudenza della Corte di giustizia; in parte sono però di provenienza consuetudinaria.

La natura giuridica dell’Unione europea

La definizione della natura giuridica consiste nell’esaminare la costituzione giuridica generale di un’organizzazione sulla base delle sue caratteristiche. La natura giuridica dell’UE è stata chiarita in due sentenze fondamentali, pronunciate nel 1963 e nel 1964 dalla Corte di giustizia e che, seppur riferite originariamente all’allora vigente Comunità economica europea, mantengono oggi la loro validità anche con riguardo all’UE nella sua struttura attuale.

La causa Van Gend & Loos

L’impresa di trasporti neerlandese Van Gend & Loos aveva presentato ricorso contro l’amministrazione doganale neerlandese, che aveva imposto dazi maggiorati sull’importazione di un prodotto chimico proveniente dalla Repubblica federale di Germania. Secondo l’impresa si trattava di una violazione del precedente articolo 12 del trattato che istituisce la Comunità economica europea (trattato CEE), riguardante il divieto di introdurre nuovi diritti doganali e di aumentare quelli esistenti nell’ambito del mercato comune. Il tribunale dei Paesi Bassi sospese il procedimento, invitando la Corte di giustizia a chiarire la portata e l’interpretazione giuridica della norma invocata del trattato CEE.

Questa causa ha dato l’occasione alla Corte di giustizia di precisare taluni aspetti fondamentali della natura giuridica della CEE. Nella sentenza, la Corte ha dichiarato quanto segue:

Lo scopo del trattato CEE, cioè l’instaurazione di un mercato comune il cui funzionamento incide direttamente sui soggetti della Comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci tra gli Stati contraenti. Ciò è confermato dal preambolo del trattato il quale, oltre a menzionare i governi, fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, dalla instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri sia dei loro cittadini. […] In considerazione di tutte queste circostanze si deve concludere che la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini».

La causa Costa/ENEL

Solo un anno dopo, la causa 6/64 Costa/ENEL offriva l’opportunità alla Corte di giustizia di approfondire ulteriormente la sua analisi. Tale causa trae origine dai seguenti fatti: nel 1962 l’Italia aveva statalizzato la produzione e la distribuzione dell’elettricità trasferendo il patrimonio delle aziende elettriche alla società ENEL. Il sig. Costa, azionista della società per azioni Edison Volta interessata dalla statalizzazione, vedendosi privato dei suoi dividendi si era rifiutato di pagare una fattura per la fornitura di elettricità di 1 926 ITL. Davanti al giudice di pace di Milano, il sig. Costa aveva giustificato la sua condotta sostenendo, tra l’altro, che la legge relativa alla statalizzazione violava tutta una serie di disposizioni del trattato CEE. Per poter valutare la posizione del sig. Costa, il giudice di pace aveva sottoposto alla Corte di giustizia diverse questioni sull’interpretazione del trattato CEE. Nella sua sentenza, la Corte di giustizia ha dichiarato riguardo alla natura giuridica della CEE:

A differenza dei comuni trattati internazionali, il trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri [...] che i giudici nazionali sono tenuti a osservare. Infatti, istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale ed in ispecie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e loro stessi».

Sulla base di tali dettagliate osservazioni, la Corte ha concluso quanto segue.

Dal complesso dei menzionati elementi discende che, scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità.

Il trasferimento effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile con il sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia».

Alla luce di queste due sentenze fondamentali della Corte di giustizia, gli elementi che, nell’insieme, conferiscono alla natura giuridica dell’UE particolarità e specificità sono i seguenti:

  • la struttura istituzionale, che garantisce che la formazione della volontà nell’UE sia caratterizzata o influenzata anche dagli interessi generali dell’Europa, vale a dire, dagli interessi dell’UE fissati negli obiettivi;
  • il trasferimento delle competenze alle istituzioni dell’UE, a un livello più elevato rispetto ad altre organizzazioni internazionali, che raggiunge proporzioni considerevoli in ambiti nei quali gli Stati conservano normalmente la loro sovranità;
  • la costituzione del proprio ordinamento giuridico, indipendente dagli ordinamenti giuridici nazionali;
  • l’applicabilità diretta del diritto dell’UE, che garantisce l’applicazione completa e uniforme delle disposizioni dell’UE in tutti gli Stati membri e stabilisce diritti e obblighi per gli Stati membri e i loro cittadini;
  • la preminenza del diritto dell’UE, che esclude qualsiasi revoca o modifica della legislazione dell’UE da parte del diritto nazionale e assicura, in caso di conflitto con il diritto nazionale, il primato del diritto dell’UE.

L’UE costituisce, pertanto, un’entità autonoma, dotata di diritti sovrani e di un ordinamento giuridico indipendente dagli Stati membri, cui sia questi ultimi sia i loro cittadini sono soggetti negli ambiti di competenza dell’UE.

Le specificità dell’UE evidenziano sia punti comuni sia differenze rispetto alle organizzazioni internazionali tradizionali, da un lato, e a strutture federali, dall’altro.

Lungi dall’essere una struttura finita, l’UE somiglia piuttosto a un «sistema in divenire», il cui aspetto definitivo è tuttora incerto.

L’unico punto che l’UE ha in comune con le organizzazioni internazionali tradizionali è il fatto che anch’essa è stata istituita con un trattato internazionale. Tuttavia l’UE si è già considerevolmente allontanata dalle sue radici di diritto internazionale. In effetti, gli atti fondatori dell’UE hanno portato alla creazione di un’UE autonoma, dotata di diritti sovrani e competenze proprie. Gli Stati membri hanno rinunciato a una parte della loro sovranità a beneficio dell’Unione e l’hanno trasferita all’UE per un esercizio comune.

Tali differenze tra le organizzazioni internazionali tradizionali e l’UE avvicinano quest’ultima a una struttura statale. In particolare, la rinuncia degli Stati membri a una parte della loro sovranità a vantaggio dell’UE ha fatto rilevare che la struttura dell’UE si avvicina a quella di uno Stato federale. Tuttavia tale concezione non tiene conto del fatto che le competenze delle istituzioni dell’UE si limitano alla realizzazione degli obiettivi fissati dai trattati e a determinati campi. Esse non possono quindi fissare liberamente i loro obiettivi come uno Stato qualsiasi, né far fronte a tutte le sfide che si pongono oggigiorno a uno Stato moderno. L’UE non dispone né dell’onnipotenza propria di uno Stato, né della capacità di attribuirsi nuove competenze (la cosiddetta competenza di decidere in merito alle proprie competenze).

Pertanto l’UE non è né un’organizzazione internazionale «classica», né un’associazione di Stati, bensì un’entità che si situa tra queste forme tradizionali di associazione tra gli Stati. Nell’uso giuridico, si parla di «organizzazione sovranazionale».

I compiti dell’Unione europea

L’elenco dei compiti affidati all’UE non si discosta granché da quello dell’ordinamento costituzionale di uno Stato. Contrariamente a quanto avviene per la maggior parte delle altre organizzazioni internazionali, non si tratta in questo caso del conferimento di compiti tecnici precisi, bensì di campi di attività che sono nel loro insieme d’importanza vitale per gli Stati stessi.

I compiti dell’UE coprono un ventaglio molto ampio, che interessa i settori economico, sociale e politico.

Compiti economici

Un ruolo centrale nei compiti economici riveste la creazione di un mercato comune in cui confluiscano i «mercati nazionali» degli Stati membri, affinché merci e prestazioni di servizi possano essere offerte e vendute alle stesse condizioni di un mercato interno al quale possano avere accesso tutti i cittadini dell’UE. L’idea della creazione di un mercato comune, lanciata dall’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors, si è concretizzata in larga misura entro il 1992 con l’approvazione da parte dei capi di Stato o di governo del programma per il completamento del mercato interno. Le istituzioni dell’UE sono riuscite a predisporre il quadro normativo per un mercato comune funzionante. Nel frattempo, tale quadro è stato ampiamente attuato a livello nazionale, al punto che il mercato interno è già divenuto realtà. Il cittadino se ne rende conto giorno per giorno, soprattutto nei suoi spostamenti all’interno dell’UE, che ha abolito ormai da tempo i controlli sulle persone alle frontiere nazionali.

Cassette di mele impilate, su cui figura la scritta Europe Quality.

Il mercato interno, con le sue quattro libertà caratteristiche (cfr. articolo 26 TFUE), è un elemento essenziale del trattato sul funzionamento dell’Unione europea: libera circolazione delle merci (articolo 34), libera circolazione delle persone (articoli 45 e 49), libera prestazione di servizi (articolo 57) e libera circolazione di capitali (articolo 63).

Al mercato unico si affianca l’Unione economica e monetaria. Nell’ambito della politica economica, il compito dell’UE non è quello di stabilire e attuare una politica economica europea, bensì di coordinare le politiche economiche nazionali, così da evitare che le decisioni in materia di politica economica adottate da uno o più Stati membri possano avere conseguenze negative sul mercato interno. A tal fine è stato stipulato il Patto di stabilità e crescita, che indica nel dettaglio i criteri cui gli Stati membri devono attenersi nelle proprie decisioni in materia di politica di bilancio. Se tali criteri non sono rispettati, la Commissione europea può emanare una raccomandazione e, in caso di un deficit di bilancio eccessivo prolungato nel tempo, il Consiglio ha facoltà anche di comminare sanzioni.

A seguito della crisi finanziaria ed economica globale, la cooperazione nel settore della politica economica a livello dell’UE è stata ulteriormente rafforzata negli anni 2010-2012. Il coordinamento della politica economica a livello dell’UE è stato integrato con un meccanismo permanente di risoluzione delle crisi, che comprende principalmente i seguenti elementi: rivalutazione del ruolo della Commissione, introduzione di nuovi meccanismi di correzione, ancoraggio del coordinamento delle politiche economiche al più alto livello politico, coordinamento definito nel semestre europeo con rafforzati obblighi di rendiconto da parte degli Stati membri, rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo nonché impegni volontari da fissare nel diritto nazionale.

Il grafico illustra le diverse fasi del semestre europeo ed evidenzia le responsabilità e le funzioni delle istituzioni dell'UE nel corso del processo.

Novembre e dicembre costituiscono la fase preparatoria, durante la quale si effettuano un'analisi della situazione e un follow-up dell'anno precedente. Nel corso di questi due mesi la Commissione europea analizza le politiche di bilancio e strutturali attraverso l'analisi annuale della crescita, elabora progetti di raccomandazioni per la zona euro e valuta gli squilibri macroeconomici nella relazione sul meccanismo di allerta. La fase 1, che va da gennaio a marzo, riguarda gli orientamenti strategici a livello dell'UE. Il Consiglio dell'Unione europea esamina l'analisi annuale della crescita e adotta conclusioni, mentre il Parlamento europeo formula un parere sugli orientamenti in materia di occupazione. Successivamente il Consiglio europeo (capi di Stato o di governo) fornisce orientamenti politici. La relazione sul meccanismo di allerta individua inoltre i paesi con potenziali squilibri macroeconomici che necessitano di un esame approfondito. Nella fase 2, da aprile a giugno, gli Stati membri definiscono obiettivi, priorità e piani specifici, sui quali la Commissione europea si basa per elaborare i progetti di raccomandazioni specifiche per paese. Il Consiglio dell'Unione europea concorda la versione definitiva delle raccomandazioni specifiche per paese, che sono successivamente approvate dal Consiglio europeo e adottate dal Consiglio dell'Unione europea. La fase 3 è la fase di attuazione. Nell'adottare le decisioni di bilancio nazionali per l'anno successivo, gli Stati membri tengono conto delle raccomandazioni. Il ciclo ricomincia verso la fine dell'anno, quando la Commissione traccia un quadro della situazione economica nella sua analisi annuale della crescita per l'anno successivo.

Il ciclo ricomincia verso la fine dell’anno, quando la Commissione traccia un quadro della situazione economica nella sua analisi annuale della crescita per l’anno successivo.

Fonte: https://www.consilium.europa.eu/it/policies/european-semester/

Al centro di questo nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi c’è il semestre europeo. Il semestre europeo è un ciclo durante il quale gli Stati membri dell’UE coordinano le proprie politiche economiche e fiscali. Si estende essenzialmente nei primi sei mesi di un anno, da cui il termine «semestre». Durante il semestre europeo gli Stati membri attuano le proprie politiche economiche e di bilancio secondo gli obiettivi e le norme stabiliti a livello dell’UE. Il semestre europeo è destinato a garantire solide finanze pubbliche, promuovere la crescita economica e prevenire eccessivi squilibri macroeconomici all’interno dell’UE.

Compito dell’UE nel settore della politica monetaria era, e rimane, introdurre una moneta unica nell’UE e regolare a livello centrale le questioni in materia monetaria. Un primo successo parziale è già stato raggiunto in questo settore. Il 1º gennaio 1999 è stato introdotto l’euro quale valuta unitaria negli Stati membri che avevano soddisfatto i criteri di convergenza (tasso d’inflazione: 1,5 %, deficit di bilancio, cioè nuovo indebitamento annuo: 3 %, debito pubblico: 60 %, tassi di interesse a lungo termine: 2 %). Gli Stati erano: Belgio, Germania, Irlanda, Spagna, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Portogallo e Finlandia. Il 1º gennaio 2002 le banconote e le monete in euro hanno sostituito la valuta nazionale all’interno di questi Stati. Da allora anche i pagamenti e le operazioni quotidiane vengono svolti utilizzando una moneta unica, l’euro. In seguito, sempre più Stati membri hanno soddisfatto i criteri per l’introduzione dell’euro: Grecia (1º gennaio 2001), Slovenia (1º gennaio 2007), Cipro (1º gennaio 2008), Malta (1º gennaio 2008), Slovacchia (1º gennaio 2009), Estonia (1º gennaio 2011), Lettonia (1º gennaio 2014), Lituania (1º gennaio 2015) e infine Croazia (1° gennaio 2023). La cosiddetta «zona euro», all’interno della quale viene utilizzata come moneta l’euro, comprende attualmente 20 Stati membri.

Anche i restanti Stati membri sono di base tenuti ad adottare l’euro come moneta nazionale non appena saranno in linea con i criteri di convergenza. Fa eccezione soltanto la Danimarca, che si è riservata di decidere se e come avviare le procedure di verifica per un’eventuale adesione alla moneta unica (clausola di «opt-out»). Un caso speciale è rappresentato dalla Svezia, che non dispone di una clausola di «opt-out». L’adesione all’euro dipende più che altro dal fatto che la Commissione e la Banca centrale europea (BCE) raccomandino al Consiglio dell’UE l’accoglimento della Svezia. Qualora venga espressa una raccomandazione in tal senso e il Consiglio vi si conformi, la Svezia non ha alcuna possibilità di rifiutare l’adesione.

Nonostante tutte le preoccupazioni, l’euro è diventato una valuta forte e riconosciuta a livello internazionale, rappresentando anche un forte legame tra gli Stati membri dell’area dell’euro. Anche la crisi del debito sovrano, iniziata nel 2010, non ha modificato questo dato di fatto. Al contrario, l’UE ha reagito a questa crisi introducendo pacchetti di salvataggio temporanei, che sono stati poi permanentemente sostituiti dal meccanismo europeo di stabilità (MES) nel 2013. Il MES, un quadro permanente di gestione delle crisi, fornisce agli Stati membri della zona euro aiuti finanziari esterni per i quali è disponibile un’effettiva capacità di prestito di 500 miliardi di euro. Gli Stati membri della zona euro possono ricevere questo sostegno finanziario solo a severe condizioni, che mirano a un rigoroso consolidamento delle finanze statali e si concretizzano in un programma di adeguamento economico negoziato dalla Commissione e dal Fondo monetario internazionale, in stretta collaborazione con la BCE. Il MES conferisce all’UE la capacità d’azione necessaria per difendere l’euro stesso in estremi scenari di stress. Rappresenta una chiara espressione della comunanza di interessi e della solidarietà nella zona euro, nonché della responsabilità individuale di ciascun Stato membro nei confronti degli altri.

Oltre alla politica economica e monetaria, rientra tra i compiti dell’UE tutta una serie di altri ambiti di politica economica: la politica in materia di clima e di energia, la politica agricola e della pesca, la politica dei trasporti, la politica dei consumatori, le politiche strutturali e di coesione, la politica in materia di ricerca e sviluppo, la politica spaziale, la politica ambientale, la politica sanitaria, la politica commerciale e la politica energetica.

Compiti sociali

Nell’ambito della politica sociale, l’UE ha anche il compito di valorizzare la dimensione sociale del mercato interno e di impegnarsi affinché non siano soltanto gli operatori economici a trarre vantaggio dall’integrazione economica. Un primo intervento in tal senso è l’introduzione di un sistema di sicurezza sociale per i lavoratori migranti. Grazie a questo sistema, i lavoratori che nell’arco della loro vita hanno lavorato in più Stati membri, e sono quindi stati soggetti a diversi regimi di previdenza sociale, godono di una piena tutela (pensione di vecchiaia e di invalidità, prestazioni sanitarie e familiari, sussidi di disoccupazione). Un’altra priorità nell’ambito della politica sociale, che assume grande importanza visti gli elevati tassi di disoccupazione all’interno dell’UE, che ormai da qualche anno destano preoccupazione, è l’elaborazione di una strategia per l’occupazione a livello europeo. Gli Stati membri e l’UE sono chiamati a sviluppare una strategia per l’occupazione e a promuovere soprattutto la qualificazione, la formazione e la flessibilità dei lavoratori; contemporaneamente, occorre adeguare i mercati del lavoro alle esigenze delle trasformazioni economiche. La promozione dell’occupazione è considerata una questione di interesse generale. Le misure assunte a livello nazionale dagli Stati membri devono pertanto essere coordinate in seno al Consiglio. L’UE deve contribuire all’innalzamento del livello di occupazione sostenendo, nel rispetto delle competenze nazionali, la cooperazione tra gli Stati membri e integrando, se del caso, le misure da questi adottate.

Compiti politici

I compiti dell’UE in ambito propriamente politico vanno ricondotti alla lotta ai cambiamenti climatici, alla cittadinanza UE, alla cooperazione giudiziaria in materia penale nonché alla politica estera e di sicurezza comune.

L’UE contrasta i cambiamenti climatici attuando politiche ambiziose all’interno dei propri confini e tramite una stretta cooperazione con partner internazionali. La mitigazione dei cambiamenti climatici è posta al centro del Green Deal europeo, un pacchetto ambizioso di misure che spaziano da una riduzione significativa delle emissioni di gas serra, agli investimenti in ricerca e innovazione all’avanguardia, alla conservazione dell’ambiente naturale europeo. Tra le prime iniziative di tale azione per il clima nell’ambito del Green Deal europeo si annoverano:

Con la cittadinanza dell’UE sono stati ulteriormente rafforzati i diritti e gli interessi dei cittadini degli Stati membri all’interno dell’UE. Godono di libertà di circolazione all’interno dell’UE (articolo 21 TFUE), del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali (articolo 22 TFUE), della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro qualora si trovino in uno Stato terzo (articolo 23 TFUE), del diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo (articolo 24 TFUE) e, con riguardo al divieto generale di discriminazione, del diritto di godere all’interno di ciascuno degli Stati membri dello stesso trattamento riservato ai cittadini di detto Stato (articolo 20, paragrafo 2, in combinato disposto con l’articolo 18 TFUE).

Nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale, occorre innanzitutto individuare i compiti di interesse generale che spettano all’UE. Tra questi rientrano in particolare la lotta contro la criminalità organizzata e la tratta di esseri umani, nonché l’azione penale. La criminalità organizzata non può più essere combattuta a livello nazionale, ma necessita di un’azione comune a livello di UE. Le prime promettenti misure adottate in questo settore sono state la direttiva per la lotta contro il riciclaggio illegale di denaro e l’istituzione, nel 1998, di un ufficio di polizia europeo denominato Europol (articolo 88 TFUE). Europol, un’agenzia dell’UE dal 2010, è ora nota come Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto. In questo settore vi è inoltre l’esigenza di agevolare e sveltire la cooperazione nell’ambito dei procedimenti giudiziari e dell’esecuzione dei provvedimenti, di snellire le pratiche per l’estradizione tra gli Stati membri, di stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nei settori della criminalità organizzata, del terrorismo, della tratta di esseri umani, nonché dello sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, del traffico illecito di droga e armi, del riciclaggio di denaro e della corruzione (articolo 83 TFUE).

Uno dei progressi più significativi compiuti nella cooperazione giudiziaria dell’UE è stata l’istituzione dell’EPPO da parte del Consiglio, con l’approvazione del Parlamento europeo, ai sensi del regolamento (UE) 2017/1939 nell’ambito di una cooperazione rafforzata che coinvolge 22 Stati membri. Nel giugno 2021, tre anni dopo l’entrata in vigore del regolamento EPPO, l’EPPO ha avviato la propria attività operativa a seguito di una decisione della Commissione basata su una proposta del procuratore capo europeo. L’EPPO ha sede a Lussemburgo. L’EPPO sarà organizzata a livello centrale e a livello decentrato. Il livello centrale è costituito dall’ufficio centrale, che è formato dal collegio, dalle camere permanenti, dal procuratore capo europeo, dai sostituti del procuratore capo europeo, dai procuratori europei e dal direttore amministrativo. Il livello decentrato è composto dai procuratori europei delegati aventi sede negli Stati membri. L’EPPO è competente per individuare, perseguire e portare in giudizio gli autori dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE e i loro complici. A tale proposito l’EPPO svolge indagini, esercita l’azione penale ed esplica le funzioni di pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri fino alla pronuncia del provvedimento definitivo. L’EPPO garantisce che le sue attività rispettino i diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali. Tutte le attività dell’EPPO sono svolte nel rispetto dei principi dello Stato di diritto e della proporzionalità. L’EPPO svolge le indagini in maniera imparziale e raccoglie tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico.

Un altro passo avanti è stato l’introduzione nel gennaio 2004 del mandato di cattura europeo, che può essere emesso in tutti i casi in cui il reato sia punibile con una pena detentiva superiore a un anno. Il mandato di cattura europeo ha sostituito le lunghe procedure di estradizione fino ad allora applicate.

Nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, sono particolarmente importanti la salvaguardia dei valori condivisi, degli interessi fondamentali e dell’indipendenza dell’UE, il rafforzamento della sicurezza dell’UE e dei suoi Stati membri, il mantenimento della pace nel mondo e il rafforzamento della sicurezza internazionale, la promozione della democrazia e dello Stato di diritto e della cooperazione internazionale, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e l’istituzione di una difesa comune.

L’UE non è una struttura nazionale e può quindi adempiere questi compiti solo in modo graduale. La politica estera e, in particolare, la politica di sicurezza sono tradizionalmente ambiti in relazione ai quali gli Stati membri rinunciano solo con difficoltà alla supremazia nazionale. Risulta difficile definire gli interessi comuni in questi settori anche perché, all’interno dell’UE, solo la Francia possiede armi nucleari. Un altro problema è dato dal fatto che non tutti gli Stati dell’UE sono membri della NATO. Le decisioni in materia di politica estera e di sicurezza comune vengono adottate ancora oggi prevalentemente a livello di cooperazione intergovernativa. È stato comunque sviluppato nel frattempo un sistema di interventi che ha inserito la cooperazione intergovernativa all’interno di un quadro normativo stabile.

Visto il mutevole contesto di sicurezza, la strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell’UE ha dato il via a un processo di approfondimento della cooperazione in materia di sicurezza e difesa. Gli Stati membri hanno concordato di estendere l’operato dell’UE in quest’ambito e hanno riconosciuto che, per realizzare tale obiettivo, è necessario rafforzare il coordinamento nonché incrementare gli investimenti per la difesa e la cooperazione al fine di sviluppare le capacità di difesa. Questo è l’obiettivo principale della cooperazione strutturata permanente (PESCO) nel settore della sicurezza e della difesa di cui all’articolo 42, paragrafo 6, e all’articolo 46 TUE e al protocollo n. 10 dello stesso. Attraverso la PESCO gli Stati membri aumentano la loro efficacia di fronte alle sfide in materia di sicurezza e progrediscono verso un’integrazione e un rafforzamento ulteriori della cooperazione per la difesa nel quadro dell’UE. L’11 dicembre 2017 il Consiglio ha adottato la decisione che istituisce la PESCO e l’elenco dei suoi partecipanti, compiendo così un passo storico. Sono complessivamente 25 gli Stati membri che hanno scelto di partecipare alla PESCO: Belgio, Bulgaria, Cechia, Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia.

I poteri dell’Unione europea

I trattati costitutivi dell’Unione europea non attribuiscono alle istituzioni dell’UE la competenza generale di emanare tutte le misure necessarie al perseguimento degli obiettivi prefissati, bensì stabiliscono, nei singoli capitoli, l’ampiezza dei poteri d’intervento conferiti. Il principio generale è che né l’UE né le sue istituzioni possono, da sole, decidere in merito al proprio fondamento giuridico e alle proprie competenze. Continua a valere il principio di attribuzione delle competenze (articolo 2 TFUE). Gli Stati membri hanno optato per tale soluzione per poter circoscrivere e controllare il trasferimento dei propri poteri.

La portata concreta delle deleghe specifiche varia a seconda del tipo di compiti assegnati all’UE. Qualora non siano state trasferite all’UE, le competenze permangono in capo ai singoli Stati membri. Nel trattato sull’UE è espressamente previsto che la «sicurezza nazionale» resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro.

Ciò solleva ovviamente il problema dell’individuazione dei confini tra l’ambito di competenza dell’UE e quello dei suoi Stati membri. Tale delimitazione viene effettuata sulla base di tre tipologie di competenze.

  • Competenza esclusiva dell’UE (articolo 3 TFUE) nei settori in cui vi è motivo di ritenere che l’adozione di misure a livello dell’UE risulti più efficace rispetto all’adozione di misure non coordinate tra loro da parte dei singoli Stati membri. Questi settori sono precisamente individuati e comprendono l’unione doganale, la definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la politica monetaria per gli Stati membri della zona euro, la politica commerciale comune e parte della politica comune della pesca. In questi settori l’Unione europea è l’unica a poter legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. L’intervento degli Stati membri è escluso, a meno che sia autorizzato dall’UE o finalizzato ad attuare gli atti dell’UE (articolo 2, paragrafo 1, TFUE).
  • Competenza concorrente tra UE e Stati membri (articolo 4 TFUE) nei settori in cui l’intervento dell’UE rappresenta un valore aggiunto rispetto all’azione degli Stati membri. Tale competenza concorrente è prevista per le normative del mercato interno, la coesione economica, sociale e territoriale, l’agricoltura e la pesca, l’ambiente, i trasporti, le reti transeuropee, l’approvvigionamento energetico e lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. La competenza concorrente copre anche i problemi comuni di sicurezza nel settore della sanità pubblica, ricerca e sviluppo tecnologico, politica spaziale, cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario. In tutti questi ambiti l’UE ha titolo per agire per prima esercitando la competenza, ma solo in merito agli elementi disciplinati nei rispettivi atti dell’Unione europea e non con riguardo alle politiche nel loro insieme. Gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’UE non ha esercitato o ha cessato di esercitare la propria (articolo 2, paragrafo 2, TFUE). Quest’ultimo caso si verifica quando le competenti istituzioni dell’UE decidono di abrogare un atto legislativo, in particolare per assicurare il rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Il Consiglio dell’UE, su iniziativa di uno o più dei suoi membri (rappresentanti degli Stati membri), può chiedere alla Commissione di presentare proposte per abrogare un atto legislativo.
  • Azioni di sostegno (articolo 6 TFUE). Nell’esercizio della sua azione di sostegno, l’UE interviene unicamente con misure di coordinamento o di completamento dell’azione degli Stati membri. Nei settori per i quali è prevista un’azione di sostegno dell’UE non può aver luogo in nessun caso un’armonizzazione delle disposizioni legislative nazionali (articolo 2, paragrafo 5, TFUE). La responsabilità per la forma giuridica adottata rimane pertanto in capo agli Stati membri, che godono così di una considerevole libertà d’azione. I settori in cui si svolge tale azione sono i seguenti: tutela e miglioramento della salute umana, industria, cultura, turismo, istruzione, gioventù e sport, formazione professionale, protezione civile e cooperazione amministrativa. Gli Stati membri riconoscono espressamente che le misure assunte a livello nazionale nell’ambito delle politiche economiche e occupazionali devono essere coordinate a livello di UE.

Oltre a questi poteri specifici, i trattati dell’UE prevedono che le istituzioni dell’UE possano intervenire qualora ciò si renda necessario per realizzare e garantire il corretto funzionamento del mercato interno o assicurare che non venga falsata la concorrenza (si veda l’articolo 352 TFUE che contiene la cosiddetta clausola di flessibilità). In tal modo, però, alle istituzioni dell’UE non viene conferita una competenza generale che le legittima a intervenire al di fuori delle finalità stabilite dai trattati, né esse possono, richiamandosi a tale disposizione, ampliare il novero delle proprie competenze a danno degli Stati membri. In passato si è fatto spesso ricorso, nella pratica, alle possibilità legate all’attribuzione di tale potere, in quanto con il tempo l’UE si è trovata a doversi occupare di un numero sempre più elevato di questioni non disciplinate in sede di conclusione dei trattati istitutivi e per le quali mancavano specifiche attribuzioni di competenze. Ciò è accaduto, in particolare, nei settori della tutela dell’ambiente e dei consumatori, o con riguardo all’istituzione del Fondo europeo di sviluppo regionale, volto a ridurre gli squilibri nel grado di sviluppo tra le diverse regioni dell’UE. Per entrambi questi settori sono state nel frattempo previste specifiche competenze. La portata pratica della clausola di flessibilità si è così ridotta notevolmente, a seguito dell’espressa disciplina di tali settori. L’esercizio di questa competenza è subordinato all’approvazione del Parlamento europeo.

Infine, le istituzioni dell’UE dispongono di ulteriori competenze per l’adozione di misure che siano indispensabili per un esercizio efficace e ponderato dei poteri già esplicitamente conferiti (poteri impliciti). Particolare importanza hanno assunto le competenze nel campo delle relazioni esterne. Su tali basi l’UE può contrarre obblighi nei confronti di Stati non membri o di altre organizzazioni internazionali in settori corrispondenti ai compiti che le sono attribuiti. Un esempio tipico emerge dalle cause riunite 3, 4 e 6/76 Kramer, sulle quali si è pronunciata la Corte di giustizia. Oggetto della controversia era la competenza dell’UE a cooperare con organizzazioni internazionali al fine di fissare quote di cattura nel settore della pesca marittima ed, eventualmente, ad assumere obblighi internazionali. In mancanza di disposizioni esplicite nel trattato, la Corte ha desunto la competenza esterna dell’UE, indispensabile a tal fine, dai poteri interni in materia di pesca nell’ambito della politica agricola comune.

L’esercizio delle competenze attribuite all’UE è tuttavia subordinato al principio di sussidiarietà, che è stato mutuato dalla dottrina sociale del cattolicesimo e che con l’introduzione nel trattato UE (articolo 5, paragrafo 3, TUE) è stato elevato al rango costituzionale. Questo principio presenta due lati, uno positivo e uno negativo: l’aspetto positivo per l’UE, vale a dire quello che stimola le sue competenze, prevede che essa intervenga quando gli obiettivi perseguiti possono essere conseguiti meglio a livello di Unione; l’aspetto negativo, vale a dire quello inibitorio, implica che l’UE non deve intervenire allorché l’azione degli Stati membri sia sufficiente a raggiungere gli obiettivi prefissati. Ciò dovrebbe avvenire automaticamente nei settori di competenza esclusiva dell’UE, per cui in tali settori non è necessario un controllo della sussidiarietà. In pratica tuttavia, per tutti gli altri settori di competenza, questo significa che tutte le istituzioni dell’UE, in particolare la Commissione, devono dimostrare che la regolamentazione o l’intervento a livello dell’UE siano effettivamente necessari. Parafrasando Montesquieu, si può affermare che quando non è necessario adottare un atto a livello dell’UE, è necessario non adottarlo. Qualora venga riconosciuta la necessità di una regolamentazione a livello dell’UE, si pone il problema dell’intensità e del tipo di misura da adottare. La risposta è data dal principio di proporzionalità, che è sancito, con riferimento alla ripartizione delle competenze, anche nel trattato UE (articolo 5, paragrafo 4, TUE). Ne consegue che è necessario esaminare se uno strumento giuridico sia veramente indispensabile o se non siano sufficienti altri mezzi di azione. Ciò significa innanzi tutto che occorre dare la precedenza a regolamenti quadro, norme minime e disposizioni volte al riconoscimento reciproco delle normative nazionali e che vanno evitate, se possibile, disposizioni legislative eccessivamente dettagliate e da armonizzare.

Il grafico illustra la composizione delle istituzioni e degli organi fondamentali dell'UE, tra cui il Consiglio europeo, il Consiglio dell'Unione europea, il Parlamento europeo, la Commissione europea, il Comitato delle regioni, il Comitato economico e sociale europeo, la Corte di giustizia dell'Unione europea, la Corte dei conti europea, la Banca centrale europea e la Banca europea per gli investimenti.

Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo dei 27 Stati membri dell'UE, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. Il Consiglio dell'Unione europea è composto da 27 ministri, uno per ogni Stato membro. Il Parlamento europeo è composto da 705 deputati. La Commissione europea è composta da 27 membri, uno per ciascuno Stato membro. Il Comitato delle regioni si compone di 329 membri. Il Comitato economico e sociale europeo si compone di 326 membri. La Corte di giustizia dell'Unione europea è composta da 27 giudici alla Corte di giustizia (uno per ciascuno Stato membro) e da 54 giudici al Tribunale (due giudici per ciascuno Stato membro). La Corte dei conti europea è composta da 27 membri, uno per ciascuno Stato membro. La Banca centrale europea è composta da 19 governatori che rappresentano le banche centrali degli Stati membri della zona euro. La Banca europea per gli investimenti ha un consiglio dei governatori composto da 27 membri, uno per ciascuno Stato membro.

Il rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità è oggi sottoposto anche al controllo dei parlamenti nazionali. È stato istituito a tal fine un sistema di allerta precoce in base al quale ciascuno dei parlamenti nazionali, entro un termine di otto settimane a decorrere dalla data di trasmissione di un progetto di atto legislativo dell’UE, può inviare un parere motivato che espone le ragioni per le quali ritiene che il progetto in causa non sia conforme ai principi di sussidiarietà e proporzionalità. Qualora il parere motivato sia sostenuto da almeno un terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali (ciascun parlamento nazionale dispone di due voti, ripartiti, nel caso del sistema bicamerale, tra le due camere), il progetto deve essere riesaminato dall’autore (generalmente la Commissione europea) che, sulla base di tale riesame, può decidere di mantenere la proposta, modificarla o ritirarla. Qualora scelga di mantenerla, la Commissione spiega, in un parere motivato, perché ritiene la proposta conforme al principio di sussidiarietà. Tale parere motivato e i pareri motivati dei parlamenti nazionali sono trasmessi al legislatore dell’UE affinché ne tenga conto nella procedura legislativa. Se, deliberando a maggioranza del 55 % dei membri del Consiglio o a maggioranza dei voti espressi in sede di Parlamento europeo, il legislatore dell’UE ritiene la proposta incompatibile con il principio di sussidiarietà, essa non forma oggetto di ulteriore esame.

Le istituzioni e gli organi dell’Unione europea

Articolo 13 TUE (quadro istituzionale)

  1. L’Unione dispone di un quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle sue azioni.

    Le istituzioni dell’Unione sono:

    • il Parlamento europeo,
    • il Consiglio europeo,
    • il Consiglio,
    • la Commissione europea,
    • la Corte di giustizia dell’Unione europea,
    • la Banca centrale europea,
    • la Corte dei conti.
  2. Ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati, secondo le procedure, condizioni e finalità da essi previste. Le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione.
  3. Le disposizioni relative alla Banca centrale europea e alla Corte dei conti figurano, insieme a disposizioni dettagliate sulle altre istituzioni, nel trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
  4. Il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione sono assistiti da un Comitato economico e sociale e da un Comitato delle regioni, che esercitano funzioni consultive.

In relazione alla «costituzione» dell’UE si pone un’ulteriore domanda, riguardante la sua organizzazione. Quali sono le istituzioni dell’UE? Dato che assume funzioni che altrimenti spetterebbero solo agli Stati, l’UE dispone di un governo, di un parlamento, di autorità amministrative e giurisdizionali, come quelle dei nostri paesi? La realizzazione dei compiti assegnati all’UE e la gestione del processo d’integrazione non sono stati lasciati, volutamente, all’iniziativa degli Stati membri o della cooperazione internazionale. L’UE dispone infatti di un sistema istituzionale che le permette di dare un nuovo impulso e nuovi obiettivi al processo di unificazione dell’Unione europea, nonché di adottare norme vincolanti in uguale misura per tutti gli Stati membri, nei settori che rientrano nella sua competenza.

I principali attori di questo sistema istituzionale dell’UE sono le istituzioni, ovvero il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione europea, la Corte di giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea e la Corte dei conti europea. Come organi ausiliari appartengono al sistema istituzionale dell’UE la Banca europea per gli investimenti, il Comitato economico e sociale e il Comitato europeo delle regioni.

Istituzioni

Parlamento europeo (articolo 14 TUE)

Il Parlamento europeo rappresenta i cittadini dell’UE. È nato dalla fusione tra l’assemblea comune della CECA, l’assemblea della CEE e l’assemblea dell’Euratom in un’unica «assemblea», tramite la convenzione sulle istituzioni comuni alle Comunità europee del 1957 (primo trattato di fusione). Il «Parlamento europeo» ha assunto la sua denominazione attuale solo con il trattato istitutivo dell’Unione europea (trattato di Maastricht), il quale non ha fatto che confermare un uso ormai corrente, risalente al 1958, data alla quale l’Assemblea, di propria iniziativa, aveva optato per il nome di «Parlamento europeo».

Composizione ed elezione

Struttura del Parlamento europeo 2019-2024

  • PRESIDENTE
  • 14 vicepresidenti
  • 5 questori (funzioni consultive)

Il presidente del Parlamento europeo, i vicepresidenti e i questori (membri del Parlamento europeo, incaricati di compiti amministrativi e finanziari interni) compongono l’Ufficio di presidenza del Parlamento europeo, eletto da quest’ultimo con un mandato di due anni e mezzo. È presente anche una conferenza dei presidenti, composta dal presidente e dai presidenti dei gruppi politici. Quest’ultima è responsabile delle questioni relative all’organizzazione interna del Parlamento e delle relazioni interistituzionali e con istituzioni esterne all’UE.

Stato membro Seggi del Parlamento europeo
Germania 96
Francia 79
Italia 76
Spagna 59
Polonia 52
Romania 33
Paesi Bassi 29
Belgio 21
Cechia 21
Grecia 21
Ungheria 21
Portogallo 21
Svezia 21
Austria 19
Bulgaria 17
Danimarca 14
Slovacchia 14
Finlandia 14
Irlanda 13
Croazia 12
Lituania 11
Lettonia 8
Slovenia 8
Estonia 7
Cipro 6
Lussemburgo 6
Malta 6

Sino al 1979 gli eurodeputati erano membri dei parlamenti nazionali che venivano nominati dai loro pari e inviati al Parlamento europeo. L’elezione a suffragio universale diretto dei deputati al Parlamento europeo da parte dei cittadini degli Stati membri, già prevista nei trattati, venne realizzata, dopo numerosi tentativi andati a vuoto, solo nel giugno 1979. La prima elezione diretta ebbe luogo nel giugno 1979 e da allora si tiene ogni cinque anni, al termine della durata di ogni «legislatura». Un sistema elettorale dell’UE è stato introdotto, dopo decenni di lavoro, con l’atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a suffragio universale diretto nel 1976, ed è stato radicalmente riformato nel 2002 dal cosiddetto Atto sull’elezione diretta del Parlamento europeo. In base ad esso, ogni singolo Stato membro continua ad applicare le proprie procedure interne, nel rispetto però di principi democratici generali comuni:

  • suffragio universale diretto,
  • elezione secondo il sistema proporzionale,
  • espressione libera e segreta del voto,
  • età minima (per quanto riguarda l’elettorato attivo vale come regola generale il raggiungimento del 18º anno di età, con l’esclusione dell’Austria e di Malta, dove l’età minima per votare corrisponde a 16 anni, così come della Grecia, dove l’età minima è fissata a 17 anni),
  • mandato rinnovabile della durata di cinque anni,
  • casi di incompatibilità (i deputati del Parlamento europeo non possono rivestire contemporaneamente due cariche, ad esempio la carica di giudice, pubblico ministero o ministro oltre a quella di deputato; essi sono inoltre soggetti alle specifiche limitazioni previste dai rispettivi Stati membri per impedire la concentrazione di cariche e mandati in capo ad un singolo soggetto),
  • data dell’elezione,
  • parità tra uomo e donna.

In alcuni Stati (Belgio, Grecia e Lussemburgo) il voto è obbligatorio.

Nel 2009 è inoltre entrato in vigore uno statuto uniforme per i deputati del Parlamento europeo che, oltre a rendere più trasparenti le loro condizioni di lavoro, contiene regole precise. Con lo Statuto è stata altresì introdotta una retribuzione unitaria per tutti i deputati a carico del bilancio dell’UE.

Da quando è eletto direttamente, il Parlamento può rivendicare il ruolo di «rappresentante dei cittadini degli Stati membri dell’UE» e ha quindi acquisito una legittimazione democratica. Tuttavia l’esistenza di un Parlamento eletto a suffragio diretto non basta, da sola, a soddisfare l’esigenza fondamentale di un’istituzione democratica, nella quale la sovranità dello Stato derivi direttamente dal popolo. Ciò richiede, oltre alla trasparenza del processo decisionale e alla rappresentatività degli organi decisionali, anche il controllo tramite il Parlamento e la legittimità parlamentare delle istituzioni dell’UE partecipi del processo decisionale. Anche su questi aspetti sono stati realizzati grandi progressi in questi ultimi anni. Non solo vi è stato un costante ampliamento dei diritti del Parlamento, ma il trattato di Lisbona ha altresì previsto espressamente che l’UE nel suo insieme deve operare nel rispetto del principio della democrazia rappresentativa. Sulla base di questo principio, i cittadini dell’Unione europea sono rappresentati direttamente all’interno del Parlamento e hanno il diritto di partecipare attivamente alla vita democratica dell’UE. In tal modo si intende garantire che le decisioni a livello dell’UE vengano assunte il più possibile in modo trasparente e vicino ai cittadini. I partiti politici attivi nell’ambito dell’UE devono contribuire alla formazione di una coscienza europea e dare espressione alla volontà dei cittadini dell’UE. Volendo ricercare un elemento di debolezza nell’attuale sistema democratico dell’UE, questo va ravvisato nel fatto che, a differenza di quanto accade nel modello statale della democrazia parlamentare, il Parlamento europeo non elegge un governo che è poi chiamato a rispondere nei suoi confronti.

Articolo 10 TUE (democrazia rappresentativa)

  1. Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa.
  2. I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo.

    Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini.

  3. Ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini.
  4. I partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione.

Questo «deficit» tuttavia si spiega semplicemente in considerazione del fatto che nell’UE non esiste un governo nel senso tradizionale del termine. Sono invece il Consiglio dell’UE e la Commissione che si ripartiscono le funzioni di tipo governativo previste dai trattati UE. Il trattato di Lisbona ha però attribuito al Parlamento poteri più ampi quanto all’insediamento della Commissione europea, che vanno dalla scelta del presidente della Commissione europea da parte del Parlamento su proposta del Consiglio europeo, sino al voto di approvazione della Commissione europea nel suo insieme (il cosiddetto diritto di investitura). Il Parlamento non ha invece un’influenza analoga sulla composizione del Consiglio. Quest’ultimo è soggetto a un controllo di tipo parlamentare solo nella misura in cui ogni suo membro, in quanto ministro a livello nazionale, è soggetto al controllo parlamentare nel paese di provenienza.

Il ruolo del Parlamento europeo nell’ambito dell’adozione degli atti legislativi dell’UE è stato nettamente rafforzato. Con l’adozione della procedura di codecisione quale procedura legislativa ordinaria dell’UE, il Parlamento è divenuto una sorta di «colegislatore» a fianco del Consiglio dell’UE. La procedura legislativa ordinaria consente al Parlamento di proporre modifiche della legislazione dell’UE nel quadro di varie letture e di sostenerle, entro certi limiti, anche di fronte al Consiglio dell’UE. L’adozione di un atto normativo dell’UE presuppone così l’accordo tra il Parlamento e il Consiglio dell’UE.

Tradizionalmente il Parlamento riveste inoltre un ruolo determinante nell’ambito della procedura di bilancio. Il trattato di Lisbona ha ulteriormente ampliato i poteri del Parlamento in tale materia, sottoponendo il piano finanziario pluriennale alla sua approvazione e prevedendo che il Parlamento sia coinvolto in tutte le decisioni sulle spese.

Sono soggetti all’approvazione del Parlamento (procedura di parere conforme) tutti gli accordi internazionali importanti che incidono su materie sottoposte alla procedura di codecisione, nonché gli accordi di adesione conclusi con i futuri Stati membri, che fissano le condizioni di adesione.

Nel corso del tempo anche le funzioni di controllo del Parlamento europeo sono state sensibilmente ampliate. Tale controllo consiste innanzitutto nel fatto che la Commissione deve rendere conto al Parlamento, deve difendere la propria posizione nelle sessioni plenarie pubbliche e presentare ogni anno una relazione generale sull’attività dell’Unione europea. Il Parlamento può adottare una mozione di censura nei confronti della Commissione con una maggioranza di due terzi dei voti espressi, costringendola in tal modo alle dimissioni (articolo 234 TFUE). Fino ad ora sono state presentate diverse mozioni di sfiducia dinanzi al Parlamento, ma nessuna di esse ha ottenuto la maggioranza richiesta2. Dato che anche il Consiglio UE, nella prassi dell’UE, deve rispondere alle interrogazioni del Parlamento, quest’ultimo ha la possibilità di introdurre un dibattito politico diretto con due dei principali organi costituzionali dell’UE.

Tale possibilità di controllo politico del Parlamento è stata notevolmente rafforzata da altri meccanismi di controllo. Il Parlamento può istituire commissioni di inchiesta al fine di esaminare violazioni del diritto o abusi a livello amministrativo dell’UE. Ad esempio, è stata creata una commissione di inchiesta nel giugno 2016, in occasione delle rivelazioni sulle società offshore e sui loro proprietari tenuti segreti dai cosiddetti «Panama Papers», il cui compito era il controllo di eventuali violazioni della legislazione dell’UE in materia di riciclaggio di denaro, elusione fiscale ed evasione fiscale. Un’altra commissione di inchiesta, anch’essa istituita nel 2016, si è occupata dello scandalo delle emissioni delle automobili. Infine, nel giugno del 2020 il Parlamento ha istituito una commissione di inchiesta sul trasporto di animali nell’UE per indagare in merito a violazioni del regolamento dell’UE sul trasporto di animali vivi [regolamento (CE) n. 1/2005]. Inoltre i trattati garantiscono a tutti i cittadini e alle persone giuridiche dell’UE il diritto di presentare al Parlamento petizioni che sono esaminate dalla Commissione permanente per le petizioni. Infine, il Parlamento si avvale della possibilità di nominare un mediatore europeo (Ombudsman), incaricato di esaminare eventuali controversie che potrebbero sorgere sulle attività delle istituzioni o degli organi dell’UE, fatta eccezione per la Corte di giustizia dell’Unione europea. Il mediatore può effettuare le indagini necessarie e rivolgersi all’organo interessato. Presenta un rapporto sulle sue attività al Parlamento.

Sede

Il Parlamento ha sede a Strasburgo, dove si tengono le 12 sessioni plenarie mensili, compresa la sessione relativa al bilancio. Altre sessioni plenarie sono tenute a Bruxelles, dove si riuniscono anche le commissioni. Il segretariato generale del Parlamento ha invece sede a Lussemburgo. Questa definizione del Consiglio europeo del 1992 è stata confermata nel protocollo n. 6 del trattato di Lisbona. L’esito di questa decisione è che i deputati al Parlamento, nonché parte dei funzionari e dipendenti, devono spostarsi tra Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo, sostenendo notevoli costi.

Consiglio europeo (articolo 15 TUE)

Il Consiglio europeo riunisce a Bruxelles, almeno due volte a semestre, i capi di Stato o di governo degli Stati membri, nonché i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Composizione e compiti

Composizione del Consiglio europeo

  • capi di Stato o di governo degli Stati membri
  • presidente del Consiglio europeo
  • presidente della Commissione europea
  • alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza

COMPITI

Definizione degli obiettivi e delle priorità della politica generale

Con il trattato di Lisbona è stato istituito il presidente del Consiglio europeo. A differenza della presidenza, il presidente del Consiglio europeo opera in forza di un mandato europeo, e non nazionale, della durata di due anni e mezzo, con occupazione a tempo pieno. La carica di presidente deve essere rivestita da una personalità di grande levatura; la nomina avviene a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio europeo ed è rinnovabile una sola volta. Il presidente si occupa della preparazione e del seguito da dare alle sedute del Consiglio europeo e rappresenta l’UE in occasione dei vertici internazionali per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune.

Il Consiglio europeo non ha potere di legiferare. La sua funzione consiste nel fissare le direttive di politica generale per l’azione dell’Unione europea. Ciò avviene sotto forma di cosiddette «conclusioni», che vengono adottate per consenso e comprendono decisioni politiche di principio o la formulazione di direttive e mandati destinati al Consiglio dell’UE o alla Commissione. Impulsi di questo genere sono stati dati dal Consiglio europeo, ad esempio, alla realizzazione dell’Unione economica e monetaria, al sistema monetario europeo, all’elezione del Parlamento a suffragio universale diretto, nonché con riguardo alle diverse attività politico-sociali e alle domande di adesione da parte di altri Stati.

Consiglio dell’Unione europea (articolo 16)
Composizione e presidenza

Nel Consiglio dell’Unione europea sono rappresentati i governi dei paesi membri. I 27 paesi inviano un rappresentante, che è in genere, ma non necessariamente, il ministro o il segretario di Stato competente per i problemi in esame. L’essenziale è che tale rappresentante sia autorizzato ad agire a nome dello Stato membro. Già in base alle diverse possibilità di rappresentanza dei governi appare evidente che non esistono membri del Consiglio permanenti. Infatti, il Consiglio si riunisce in 10 formazioni con una composizione diversa in base alle materie trattate.

Le 10 formazioni del Consiglio dell’UE

Il Consiglio è composto da un rappresentante del governo per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, e la sua composizione varia a seconda del settore specifico.

Sotto la presidenza dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza:

  • Affari esteri

Sotto la presidenza dello Stato membro che esercita la presidenza del Consiglio:

  • Affari generali
  • Economia e finanza
  • Giustizia e affari interni
  • Occupazione, politica sociale, salute e consumatori
  • Competitività
  • Trasporti, telecomunicazioni ed energia
  • Agricoltura e pesca
  • Ambiente
  • Istruzione, gioventù, cultura e sport

Il Consiglio Affari esteri elabora l’azione esterna dell’UE secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’UE. Il Consiglio Affari generali assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio e, insieme al presidente del Consiglio europeo e alla Commissione, prepara le riunioni del Consiglio europeo. Gli Stati membri assicurano la presidenza del Consiglio per l’arco di sei mesi in ordine di avvicendamento, ad eccezione del Consiglio Affari esteri, diretto dall’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. L’ordine di avvicendamento viene deciso dal Consiglio all’unanimità. Il cambio di presidenza ha luogo ogni anno il 1º gennaio e il 1º luglio (2020: Croazia, Germania; 2021: Portogallo, Slovenia; 2022: Francia, Cechia; 2023: Svezia, Spagna). In considerazione dei frequenti avvicendamenti della presidenza, si opera sulla base di un programma di lavoro concordato tra i rispettivi tre Stati chiamati ad assumere la presidenza in sequenza, valido per un periodo di 18 mesi (il cosiddetto «team della presidenza»). Spetta alla presidenza del Consiglio, innanzi tutto, dare un orientamento alle attività del Consiglio e dei suoi comitati. Riveste inoltre un’importanza politica in quanto lo Stato membro che detiene la presidenza del Consiglio svolge un ruolo di primo piano sulla scena internazionale, il che consente anche ai piccoli Stati membri di misurarsi con i «grandi» sul piano politico e di affermarsi nella politica europea.

Il lavoro del Consiglio viene preparato da numerosi organi preparatori (comitati e gruppi di lavoro) composti dai rappresentanti degli Stati membri. Il più importante di questi organi preparatori è il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (Coreper I e II), che si riunisce di solito almeno una volta alla settimana.

Il Consiglio è assistito dal segretariato generale, sotto la responsabilità di un segretario generale nominato dal Consiglio.

Il Consiglio ha sede a Bruxelles.

Compiti

Il Consiglio dell’UE ha cinque compiti fondamentali:

  • in primo luogo il Consiglio dell’UE esercita, congiuntamente al Parlamento, la funzione legislativa nel contesto della procedura legislativa ordinaria;
  • tra i suoi compiti rientra inoltre il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri;
  • sviluppa la politica estera e di sicurezza comune dell’UE seguendo le linee del Consiglio europeo;
  • il Consiglio è l’istituzione competente a concludere accordi tra l’UE, da un lato, e Stati non membri o organizzazioni internazionali, dall’altro;
  • predispone inoltre il progetto di bilancio sulla base di un progetto della Commissione. Tale progetto di bilancio deve poi essere sottoposto all’approvazione del Parlamento. È inoltre il Consiglio che raccomanda al Parlamento di concedere alla Commissione il discarico per l’esecuzione del bilancio.

Il Consiglio europeo nomina inoltre i membri della Corte dei conti europea, del Comitato economico e sociale europeo e del Comitato europeo delle regioni.

Riunioni e decisioni del Consiglio

Il Consiglio delibera operando un bilanciamento tra gli interessi degli Stati membri e quelli dell’UE. Anche se sono soprattutto gli interessi dei diversi paesi che vengono sostenuti in seno al Consiglio, i suoi membri sono tuttavia obbligati a rispettare, nel contempo, gli obiettivi e le esigenze dell’Unione europea nel suo insieme. Il Consiglio è un’istituzione dell’UE, non una conferenza governativa. Pertanto le sue deliberazioni non devono ricercare il minimo comune multiplo tra gli Stati membri, bensì il massimo comune denominatore tra gli interessi dell’UE e quelli dei suoi paesi.

Il Consiglio delibera e adotta risoluzioni solo sulla base di documenti e di progetti redatti nelle 24 lingue ufficiali (bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, neerlandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese). In caso d’urgenza, è prevista la possibilità di deroga unanime all’applicazione di tale regime linguistico. Lo stesso vale per le proposte di emendamento presentate ed esaminate in sede di riunione.

Per le votazioni in seno al Consiglio viene seguita, conformemente ai trattati UE, la regola della maggioranza. Di norma, esso delibera a maggioranza qualificata (articolo 16, paragrafo 3, TUE); solo in alcuni settori (in particolare per le questioni procedurali) è sufficiente la maggioranza semplice, secondo la quale ogni Stato dispone di un voto (con 27 Stati membri, la maggioranza semplice è raggiunta con 14 voti).

Secondo il sistema di voto a doppia maggioranza, la maggioranza qualificata si intende raggiunta se almeno il 55 % dei membri del Consiglio, composto da almeno 15 Stati membri che rappresentano almeno il 65 % della popolazione dell’UE, sono favorevoli a una proposta della Commissione (articolo 16, paragrafo 4, TUE)3.

Per evitare che pochi Stati con una popolazione numerosa possano bloccare l’approvazione di una decisione, è stata prevista una soglia di minoranza di blocco di almeno quattro Stati che rappresentano almeno il 35 % della popolazione dell’UE. Il sistema è completato da un meccanismo complementare: nel caso in cui non si raggiunga una minoranza di blocco, il processo decisionale può essere sospeso. Il Consiglio, invece di passare alla decisione, può continuare le trattative per un «adeguato lasso di tempo», qualora lo richieda un numero di membri del Consiglio che rappresenti almeno il 75 % della popolazione o il 75 % degli Stati membri necessari a formare la minoranza di blocco.

Per le decisioni relative a settori politici particolarmente sensibili, i trattati prevedono l’unanimità. Tuttavia eventuali astensioni non possono impedire l’adozione di una decisione. La regola dell’unanimità si applica ancora oggi alle questioni fiscali, ai regolamenti relativi a diritti e interessi dei lavoratori, in caso di accertamento di violazioni dei valori fondamentali da parte di uno Stato membro nonché alle decisioni per la fissazione di principi e attuazione in materia di politica estera e di sicurezza comune o a determinate decisioni nell’area della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

L’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (articolo 18 TUE)

L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza non è divenuto, come prevedeva il progetto di costituzione, il ministro degli esteri dell’UE; ciononostante la sua posizione nella struttura istituzionale è stata notevolmente rafforzata. L’alto rappresentante è quindi inserito sia all’interno del Consiglio dell’UE, dove presiede il Consiglio Affari esteri, sia in seno alla Commissione, quale vicepresidente responsabile delle relazioni esterne. L’alto rappresentante viene eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del presidente della Commissione europea. Si avvale di un servizio europeo per l’azione esterna creato nel 2011, costituito dalla fusione dei servizi del Consiglio e della Commissione per la politica estera e dal coinvolgimento dei diplomatici dei servizi diplomatici nazionali.

Commissione europea (articolo 17 TUE)

Composizione

27 membri, tra cui

  • presidente
  • 3 vicepresidenti esecutivi
  • alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza
  • 4 ulteriori vicepresidenti
  • 18 commissari

COMPITI

  • Iniziativa per la legislazione dell’UE
  • Controllo del rispetto e della corretta applicazione del diritto dell’UE
  • Amministrazione e attuazione della normativa dell’UE
  • Rappresentanza dell’UE nelle organizzazioni internazionali
Ursula von der Leyen in piedi sul podio, sorridente, solleva una mano rivolgendosi al pubblico.

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, tiene il suo discorso sullo stato dell’Unione di fronte ai deputati del Parlamento europeo. Strasburgo, Francia, 15 settembre 2021.

Composizione

La Commissione europea è composta da 27 membri, un membro per ciascuno Stato membro: attualmente sono attivi 27 commissari (con diversi ruoli) (articolo 17, paragrafo 4, TUE). La riduzione delle dimensioni della Commissione di cui all’articolo 17, paragrafo 5 del trattato sull’Unione europea a due terzi del numero degli Stati membri a partire dal 1º novembre 2014 non è stata messa in atto in seguito a una decisione del Consiglio europeo.

La Commissione è guidata da un presidente, che ha una posizione di forza all’interno del collegio. Egli non è quindi più solo «primus inter pares», ma occupa una posizione privilegiata in quanto definisce gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti e decide anche in merito all’organizzazione interna della Commissione [articolo 17, paragrafo 6, lettere a) e b), TUE]. Il presidente dispone pertanto di un potere d’orientamento e di un potere organizzativo. Sulla base di queste competenze, spetta al presidente assicurare che l’azione della Commissione sia coerente ed efficace e che sia rispettato il principio della collegialità, che si esprime in particolare nella decisione come collegio (articolo 250, primo comma, TFUE). Egli struttura e ripartisce le competenze della Commissione tra i suoi membri, nonostante la ripartizione delle competenze possa essere anche modificata nel corso del mandato (articolo 248 TFUE). Il presidente nomina i vicepresidenti esecutivi e gli ulteriori vicepresidenti, ad eccezione dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche vicepresidente proprio in virtù del suo mandato. È inoltre espressamente previsto che un membro della Commissione debba rassegnare le dimissioni se il presidente lo chiede (articolo 17, paragrafo 6, secondo comma, TUE). Infine, è evidente la posizione preminente del presidente nel suo diritto di essere ascoltato durante la selezione degli altri commissari e per la sua appartenenza al Consiglio europeo. Dal dicembre 2019 la Commissione europea è guidata per la prima volta da una presidente, Ursula von der Leyen.

Sotto la guida di un vicepresidente, vi sono sei gruppi di commissari incaricati di monitorare e portare avanti i lavori sulle principali priorità politiche, indipendentemente dal principio di collegialità:

  • un Green Deal europeo, sotto la responsabilità del vicepresidente esecutivo Frans Timmermans;
  • un’Europa pronta per l’era digitale, sotto la responsabilità della vicepresidente esecutiva Margrethe Vestager;
  • un’economia al servizio delle persone, sotto la responsabilità del vicepresidente esecutivo Valdis Dombrovskis;
  • un’Europa più forte nel mondo, sotto la responsabilità dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borell Fontelles;
  • promozione dello stile di vita europeo, sotto la responsabilità del vicepresidente Margaritis Schinas;
  • un nuovo slancio per la democrazia europea, sotto la responsabilità della vicepresidente Věra Jourová.

Il presidente e i membri della Commissione sono nominati per un periodo di cinque anni. Allo scopo si applica la procedura di investitura. Questa procedura è stata ridefinita all’articolo 17, paragrafo 7, TUE a seguito del trattato di Lisbona. Si tratta di una procedura a più stadi. Innanzitutto ha luogo la nomina del presidente; successivamente vengono selezionate le personalità da nominare come membri della Commissione; come terzo passaggio vengono nominati ufficialmente il presidente della Commissione, l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione.

Il presidente della Commissione viene proposto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata al Parlamento europeo dopo adeguate consultazioni. Durante la selezione del candidato per la carica di presidente, si deve prendere in considerazione il risultato delle elezioni del Parlamento europeo. Grazie a questa nuova condizione, la Commissione è più politicizzata. In ultima analisi, ciò significa che i gruppi politici del Parlamento, che rappresentano la rispettiva maggioranza, svolgono un ruolo significativo nella nomina del presidente.

Dopo l’elezione del presidente, il Consiglio europeo adotta «per consenso» (articolo 15, paragrafo 4, TUE) l’elenco redatto sulla base delle proposte dei singoli Stati membri, delle altre personalità da nominare membri della Commissione. Le personalità dovrebbero essere scelte sulla base delle qualifiche generali e del loro impegno per l’Europa, e offrire al contempo la piena garanzia di indipendenza. La maggioranza qualificata del Consiglio europeo è sufficiente per la nomina dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (articolo 18, paragrafo 1, TUE). Per quanto riguarda i candidati, deve essere raggiunta l’intesa tra il Consiglio europeo e il presidente eletto della Commissione. Per la nomina dell’alto rappresentante è necessaria anche l’approvazione esplicita del presidente designato della Commissione. Di fronte al veto del presidente eletto della Commissione non può essere effettuata alcuna nomina dei restanti membri della Commissione.

In seguito all’elezione del presidente e alla nomina dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza e degli altri membri della Commissione, il collegio è soggetto a un voto di approvazione del Parlamento. In sede di audizione da parte dei parlamentari, ai membri della Commissione nominati devono tuttavia essere innanzitutto sottoposte domande circa questioni specifiche relative alle proprie competenze e alle posizioni personali di base sul futuro dell’UE. Dopo l’approvazione del Parlamento, per la quale è sufficiente una maggioranza semplice, il presidente e gli altri membri della Commissione vengono nominati a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo. Con la nomina dei suoi membri, la Commissione avvia le attività.

La Commissione europea ha sede a Bruxelles.

Compiti

La Commissione è anzitutto il motore della politica dell’UE. Dalla Commissione parte ogni iniziativa dell’Unione europea, in quanto spetta a essa presentare al Consiglio proposte e progetti di normativa dell’UE (il cosiddetto diritto d’iniziativa della Commissione). Le attività della Commissione non sono tuttavia discrezionali, in quanto è obbligata ad agire ove lo richieda l’interesse dell’UE. Anche il Parlamento (articolo 225 TFUE), il Consiglio (articolo 241 TFUE) e un gruppo di cittadini dell’UE (articolo 11, paragrafo 4, TUE) nell’ambito di una loro iniziativa possono sollecitare la Commissione a sottoporre proposte. Alla Commissione sono stati riconosciuti unicamente poteri legislativi primari in ambiti specifici (ad esempio, in materia di bilancio dell’UE, di fondi strutturali, di lotta contro la discriminazione fiscale o di aiuti di Stato, di clausole di salvaguardia). Ben più vaste sono le competenze in materia di attuazione delegate alla Commissione dal Parlamento e dal Consiglio per l’esecuzione delle norme che essi stabiliscono (articolo 290 TFUE).

La Commissione è inoltre la custode dei trattati, e pertanto della legislazione dell’UE. Vigila sul rispetto e sull’applicazione della legislazione primaria e secondaria dell’UE da parte degli Stati membri. Spetta alla Commissione perseguire eventuali violazioni di una norma dell’UE nell’ambito della procedura di infrazione e, eventualmente, adire la Corte di giustizia (articolo 258 TFUE). La Commissione interviene inoltre in casi di violazione della legislazione dell’UE, in particolare del diritto della concorrenza, da parte di persone fisiche o giuridiche dell’UE e può loro infliggere pesanti sanzioni. La lotta contro le violazioni delle regole dell’UE è diventata, negli ultimi anni, una delle attività principali della Commissione.

Collegato al ruolo di custode è il compito di rappresentare gli interessi dell’UE. La Commissione non può perseguire, per definizione, alcun interesse che non sia quello dell’UE. Deve preoccuparsi costantemente, nel corso delle trattative spesso difficili in seno al Consiglio, di far valere l’interesse dell’UE e di trovare compromessi che tengano conto di tale interesse. In tal senso funge pertanto da intermediaria fra gli Stati membri, un ruolo per il quale è particolarmente idonea e qualificata in virtù della sua neutralità.

Infine la Commissione, anche se in misura limitata, è un organo esecutivo. Espleta tale competenza soprattutto per quanto riguarda il diritto della concorrenza, ambito in cui esercita le funzioni di una classica autorità amministrativa: esamina i fatti, accorda autorizzazioni o formula divieti e, se necessario, impone sanzioni. Altrettanto ampie sono le competenze amministrative della Commissione nell’ambito dei fondi strutturali dell’UE e del bilancio. Di norma però l’applicazione delle norme dell’UE è demandata agli Stati membri. Questa soluzione, privilegiata dai trattati, presenta il vantaggio di avvicinare i cittadini all’ancora avulsa realtà dell’ordinamento UE, attribuendole l’autorità e l’aspetto più familiare dell’ordinamento nazionale.

Struttura amministrativa della Commissione europea

  • Commissione (27 membri)

DIREZIONI GENERALI E SERVIZI

  • Segretariato generale
  • Servizi giuridici
  • Direzione generale Comunicazione
  • IDEA — Ispirare, dibattere, coinvolgere e accelerare l’azione
  • Direzione generale del Bilancio
  • Direzione generale Risorse umane e sicurezza
  • Direzione generale dell’Informatica
  • Servizio di audit interno
  • Ufficio europeo per la lotta antifrode
  • Direzione generale degli Affari economici e finanziari
  • Direzione generale del Mercato interno, dell’industria, dell’imprenditoria e delle PMI
  • Direzione generale per l’Industria della difesa e lo spazio
  • Direzione generale della Concorrenza
  • Direzione generale per l’Occupazione, gli affari sociali e l’inclusione
  • Direzione generale dell’Agricoltura e dello sviluppo rurale
  • Direzione generale della Mobilità e dei trasporti
  • Direzione Generale dell’Energia
  • Direzione generale dell’Ambiente
  • Direzione generale per l’Azione per il clima
  • Direttore generale della Ricerca e dell’innovazione
  • Direzione generale delle Reti di comunicazione, dei contenuti e delle tecnologie
  • Centro comune di ricerca
  • Direzione generale degli Affari marittimi e della pesca
  • Direzione generale della Stabilità finanziaria, dei servizi finanziari e dell’Unione dei mercati dei capitali
  • Direzione generale della Politica regionale e urbana
  • Direzione generale per il Sostegno alle riforme strutturali
  • Direzione generale della Fiscalità e dell’unione doganale
  • Direzione generale dell’Istruzione, della gioventù, dello sport e della cultura
  • Direzione generale della Salute e della sicurezza alimentare
  • Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie
  • Direzione generale della Migrazione e degli affari interni
  • Direzione generale della Giustizia e dei consumatori
  • Direzione generale del Commercio
  • Direzione generale della Politica di vicinato e dei negoziati di allargamento
  • Direzione generale per i Partenariati internazionali
  • Direzione generale per la Protezione civile e le operazioni di aiuto umanitario europee (ECHO)
  • Eurostat
  • Direzione generale dell’Interpretazione
  • Direzione generale della Traduzione
  • Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea
  • Servizio degli strumenti di politica estera
  • Ufficio di gestione e liquidazione dei diritti individuali
  • Ufficio per le infrastrutture e la logistica a Bruxelles
  • Ufficio per le infrastrutture e la logistica a Lussemburgo
  • Ufficio europeo di selezione del personale

ALTRI DIPARTIMENTI SERVIZI

  • Responsabile della protezione dei dati
  • Biblioteca della Commissione europea
  • Scuola europea di amministrazione
  • Servizio degli Archivi storici
  • Task force Ripresa e resilienza
  • Portavoce
Corte di giustizia dell’Unione europea (articolo 19 TUE)

Ogni ordinamento può durare solo se le sue norme sono sottoposte alla vigilanza di un’autorità indipendente. In un’unione tra Stati, le norme comuni rischiano, se affidate al controllo delle giurisdizioni nazionali, di essere interpretate e applicate in maniera diversa da Stato a Stato, mettendo così a repentaglio l’applicazione uniforme del diritto dell’UE in tutti gli Stati. Questi motivi hanno indotto, già nel 1952, al momento stesso dell’istituzione della prima comunità (la CECA), a istituire una Corte di giustizia, che è poi divenuta nel 1957 anche l’autorità giudiziaria di entrambe le altre comunità, la CEE (poi CE) ed Euratom. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha sede a Lussemburgo.

Rappresenta l’organo giudiziario dell’UE. Oggi i compiti della giurisprudenza sono espletati su due livelli:

Al fine di alleggerire il carico di lavoro che grava sulla Corte di giustizia e per garantire una migliore tutela giurisdizionale a livello dell’UE, il Consiglio aveva istituito nel 2004 il tribunale specializzato della funzione pubblica (cfr. articolo 257 TFUE). Nel 2015 tuttavia il legislatore dell’UE ha deciso di aumentare gradualmente il numero dei giudici del Tribunale (a 54 nel 2020) e di trasferire le competenze del tribunale della funzione pubblica al Tribunale. Di contro, il tribunale della funzione pubblica è stato sciolto il 1º settembre 2016.

Composizione della Corte di giustizia

27 giudici

e

11 avvocati generali

nominati di comune accordo per sei anni dai governi degli Stati membri

TIPI DI PROCEDIMENTI

  • Procedura di infrazione: Commissione contro Stato membro (articolo 258 TFUE); Stato membro contro Stato membro (articolo 259 TFUE)
  • Ricorso di annullamento e per carenza di un’istituzione dell’UE o di uno Stato membro (contro il Parlamento e/o il Consiglio) per atti illeciti o omessi (articoli 263 e 265 TFUE)
  • Procedimento di pronuncia pregiudiziale dei tribunali degli Stati membri al fine di chiarire l’interpretazione e la validità del diritto dell’UE (articolo 267 TFUE)
  • Impugnazione delle decisioni emesse dal Tribunale (articolo 256 TFUE)

La Corte di giustizia è la giurisdizione suprema e competente per tutte le questioni pertinenti il diritto dell’UE. In termini generali, è incaricata di assicurare il «rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati».

In questa descrizione generale dei compiti della Corte si distinguono tre ambiti fondamentali:

  • il controllo del rispetto del diritto dell’UE, per quanto riguarda sia il comportamento delle istituzioni dell’UE nell’attuazione delle disposizioni dei trattati, sia l’osservanza da parte degli Stati membri e del singolo degli obblighi derivanti dal diritto dell’UE;
  • l’interpretazione del diritto dell’UE;
  • lo sviluppo del diritto dell’UE.

La Corte esercita tali compiti attraverso la funzione consultiva e nella giurisprudenza. La funzione consultiva in ambito giuridico si espleta con pareri vincolanti in merito ad accordi che l’UE intende concludere con paesi non membri o organizzazioni internazionali. Molto più importante è tuttavia il suo ruolo di istanza giudiziaria. Nell’ambito di tale attribuzione, la Corte esercita funzioni che, negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, sono ripartite fra organi giudiziari differenti. La Corte infatti decide a titolo di corte costituzionale nelle controversie tra le istituzioni dell’UE e in merito al controllo della legittimità della legislazione dell’UE; in quanto giurisdizione amministrativa per verificare gli atti amministrativi emanati dalla Commissione o indirettamente dalle autorità degli Stati membri (sulla base del diritto dell’UE); in quanto tribunale sociale e tribunale del lavoro in merito a problemi concernenti la libera circolazione e la sicurezza sociale dei lavoratori, nonché la parità di trattamento fra uomini e donne sul posto di lavoro; in quanto tribunale tributario nel verificare la validità e l’interpretazione delle disposizioni contenute nelle direttive in materia fiscale e doganale, nonché come tribunale civile nelle istanze per risarcimento danni, nell’interpretazione delle norme in materia di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.

Il Tribunale

Il numero di procedimenti della Corte di giustizia è aumentato costantemente nel corso degli anni ed è destinato a salire ancora. Basti pensare ai potenziali conflitti che possono sorgere dalle numerose direttive adottate nel quadro del mercato interno e attuate nella legislazione nazionale. Altre questioni che la Corte dovrà infine chiarire sono quelle che si delineano sin d’ora in merito al trattato sull’UE. Perciò nel 1988 è stato istituito un altro Tribunale al fine di alleggerire il carico di lavoro della Corte di giustizia.

Composizione del Tribunale

54 giudici

ciascuno Stato membro nomina due giudici designati di comune accordo per sei anni dai governi degli Stati membri

TIPI DI PROCEDIMENTI

  • Ricorso per annullamento e per carenza da parte di persone fisiche o giuridiche per atti illeciti o omessi; ricorso degli Stati membri contro il Consiglio e/o la Commissione nei settori degli aiuti, delle pratiche antidumping e delle competenze di esecuzione (articoli 263 e 265 TFUE)
  • Ricorsi per risarcimento danni per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (articoli 268 e 340, primo e secondo comma, TFUE)

Il Tribunale non è una nuova istituzione dell’UE, bensì è integrato nella «Corte di giustizia dell’Unione europea». È tuttavia autonomo e dotato di una propria organizzazione. Dispone di una propria cancelleria e di un proprio regolamento di procedura. Per distinguere le due istituzioni, le cause trattate dal Tribunale sono contrassegnate dalla lettera «T» (= Tribunale, ad esempio causa T-1/20), mentre quelle della Corte di giustizia dalla lettera «C» (= Corte, ad esempio causa C-1/20).

Inizialmente le competenze del Tribunale erano limitate a un determinato ambito di ricorsi, oggi è invece competente per i seguenti settori:

  • come tribunale di primo grado, sottoposto quindi al sindacato della Corte di giustizia, è competente a decidere in caso di ricorsi di annullamento e per carenza proposti da persone fisiche o giuridiche contro un’istituzione dell’UE, ricorsi degli Stati membri contro il Consiglio e/o la Commissione nei settori degli aiuti, delle pratiche antidumping e delle competenze di esecuzione, in virtù della clausola compromissoria contenuta in un contratto stipulato dall’UE o per conto di questa, e di ricorsi per risarcimento danni contro l’UE;
  • è stata inoltre prevista la possibilità di trasferire in capo al Tribunale la competenza a decidere dei procedimenti di pronuncia pregiudiziale in determinate materie specifiche. Sino a oggi non si è fatto ricorso a tale facoltà.
Banca centrale europea (articoli 129 e 130 TFUE)

La Banca centrale europea, con sede a Francoforte sul Meno (Germania), è il centro dell’Unione economica e monetaria. Determina il volume e le emissioni della moneta unica europea ed è pertanto responsabile della stabilità dell’euro (articolo 128 TFUE).

Per consentire alla BCE di assolvere tale compito, numerose disposizioni garantiscono la sua indipendenza. Né la BCE né le banche centrali nazionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’UE, dai governi degli Stati membri, né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni e i governi degli Stati membri si impegnano a non cercare di influenzarla (articolo 130 TFUE).

Il Sistema europeo delle banche centrali è composto dalla BCE e dalle banche centrali nazionali (articolo 129 TFUE). Definisce e attua la politica monetaria dell’UE e ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno dell’UE; inoltre è incaricato di detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri e di promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento dell’UE (articolo 127, paragrafo 2, TFUE).

Corte dei conti europea (articoli 285 e 286 TFUE)

La Corte dei conti europea è stata istituita il 22 luglio 1975 e ha iniziato la sua attività nell’ottobre 1977 a Lussemburgo. È stata riconosciuta nel frattempo quale istituzione dell’UE (articolo 13 TUE). In base all’attuale numero di Stati membri, è composta da 27 membri, nominati per un periodo di sei anni dal Consiglio, il quale adotta, a maggioranza qualificata e previa consultazione del Parlamento, l’elenco dei membri, redatto conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro (articolo 286, paragrafo 2, TFUE). I membri designano tra loro il presidente della Corte dei conti, che dura in carica tre anni. Il suo mandato è rinnovabile.

La Corte dei conti ha il compito di controllare la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese dell’UE e di accertare la sana gestione finanziaria. L’unico strumento di cui dispone la Corte dei conti consiste nella pubblicità dei suoi atti. I risultati della sua attività di controllo sono riassunti, al termine di ogni esercizio finanziario, in una relazione annuale che viene pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea e, in tal modo, resa accessibile al pubblico. Inoltre può in qualsiasi momento esprimere un parere su determinate questioni in relazioni speciali, anch’esse pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

Organi consultivi

Comitato economico e sociale europeo (articolo 301 TFUE)

Nel Comitato economico e sociale europeo (CESE) sono rappresentati istituzionalmente a livello di UE i diversi gruppi della vita economica e sociale, in particolare i datori di lavoro e i lavoratori, gli agricoltori, le imprese di trasporti, i commercianti, gli artigiani, i liberi professionisti e le piccole e medie imprese. Il Comitato rappresenta inoltre i diritti dei consumatori, dei gruppi di protezione dell’ambiente e delle associazioni.

Il CESE si compone di un numero massimo di 350 membri (attualmente sono 326) appartenenti alle organizzazioni più rappresentative degli Stati membri e nominati per un periodo di cinque anni dal Consiglio, che adotta l’elenco dei membri redatto conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro.

La ripartizione tra i paesi è la seguente:
Germania, Francia, Italia 24
Spagna, Polonia 21
Romania 15
Belgio, Bulgaria, Cechia, Grecia, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Svezia 12
Danimarca, Irlanda, Croazia, Lituania, Slovacchia, Finlandia 9
Lettonia, Slovenia 7
Estonia 6
Cipro, Lussemburgo, Malta 5

I consiglieri sono suddivisi in tre gruppi (datori di lavoro, lavoratori, rappresentanti della società civile). I pareri, che vengono adottati dall’assemblea plenaria, sono elaborati da «sezioni specializzate». Inoltre il CESE coopera strettamente con le commissioni e i gruppi di lavoro del Parlamento europeo.

In alcuni casi il Comitato deve essere consultato nella procedura legislativa. Il Comitato, qualora lo ritenga opportuno, può anche formulare pareri di propria iniziativa. I pareri del Comitato costituiscono una sintesi di punti di vista a volte assai diversi, e sono pertanto di grande utilità per il Consiglio e la Commissione, in quanto consentono loro di venire a conoscenza delle modifiche auspicate dai gruppi direttamente interessati da una proposta.

Il CESE ha sede a Bruxelles.

Comitato europeo delle regioni (articolo 305 TFUE)

Il trattato sull’Unione europea (trattato di Maastricht) ha istituito un ulteriore organo consultivo accanto al già esistente CESE: il Comitato europeo delle regioni. Analogamente al CESE, quest’ultimo Comitato non è un’istituzione europea nel senso proprio del termine, in quanto svolge solo compiti consultivi. A differenza delle istituzioni dell’UE (Parlamento, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia, BCE, Corte dei conti) non svolge in maniera giuridicamente vincolante compiti attribuiti all’Unione.

Come il CESE, il Comitato europeo delle regioni è costituito da un numero massimo di 350 membri (attualmente sono 329), che rappresentano le autorità regionali locali degli Stati membri e che detengono un mandato elettivo da parte delle collettività territoriali o sono politicamente responsabili di fronte a un’assemblea elettiva.

La ripartizione tra i paesi è la seguente:
Germania, Francia, Italia 24
Polonia, Spagna 21
Romania 15
Belgio, Bulgaria, Cechia, Grecia, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Svezia 12
Danimarca, Irlanda, Croazia, Lituania, Slovacchia, Finlandia 9
Estonia, Lettonia, Slovenia 7
Cipro, Lussemburgo 6
Malta 5

Il Comitato delle regioni deve essere obbligatoriamente consultato dal Consiglio o dalla Commissione nei casi previsti dal trattato (consultazione obbligatoria), in particolare per quanto riguarda la formazione, la cultura, la sanità pubblica, le reti transeuropee, le infrastrutture dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia, la coesione economica e sociale, la politica dell’occupazione, la legislazione sociale. Inoltre il Consiglio consulta regolarmente e senza obbligo giuridico il Comitato europeo delle regioni sui più svariati progetti legislativi (consultazione facoltativa).

Anche il Comitato europeo delle regioni ha sede a Bruxelles.

La Banca europea per gli investimenti (articolo 308 TFUE)

L’UE europea dispone, per il suo «sviluppo equilibrato e costante», di un istituto finanziario, la Banca europea per gli investimenti, con sede in Lussemburgo. La Banca concede prestiti e garanzie in tutti i settori dell’economia, per valorizzare in particolare le regioni meno sviluppate, per ammodernare o riconvertire certe imprese oppure per creare nuove attività e per progetti che presentino un interesse comune per più Stati membri.

L’ORDINAMENTO GIURIDICO DELL’UNIONE EUROPEA

La «costituzione» dell’UE, come descritta nelle pagine precedenti, e in particolare i valori fondamentali cui si ispira, restano in un primo momento estremamente astratti e possono essere concretizzati mediante il diritto dell’UE. L’UE costituisce così un fenomeno giuridico sotto due punti di vista: è un’emanazione del diritto e un’Unione in forza di tale diritto.

L’Unione europea, emanazione del diritto e unione in forza del diritto

L’elemento essenziale di novità, e ciò che differenzia l’UE dai precedenti tentativi di unificare l’Europa, consiste nel ricorso non alla costrizione o all’assoggettamento, bensì alla forza del diritto. Solo un’unità basata sul libero arbitrio può infatti ambire a essere duratura, purché sia edificata su valori fondamentali, quali la libertà e l’uguaglianza, nonché garantita e realizzata medianti gli strumenti del diritto. Proprio su questa idea di base si fondano i trattati costitutivi dell’Unione europea.

L’UE non è soltanto un’emanazione del diritto, ma persegue altresì i suoi obiettivi ricorrendo unicamente agli strumenti del diritto. In altri termini, è un’Unione in virtù del diritto. Non è la forza che regola la convivenza economica e sociale dei popoli degli Stati membri, bensì il diritto dell’UE. Tale diritto è la base del sistema istituzionale, definisce le procedure decisionali delle istituzioni dell’UE e ne disciplina i rapporti reciproci. Attribuisce a tali istituzioni il potere di agire mediante regolamenti, direttive e decisioni, attraverso cui possono adottare atti giuridici con efficacia vincolante per gli Stati membri e per i loro cittadini. Anche il singolo diviene così parte integrante dell’UE. Il diritto dell’UE influisce infatti in modo sempre più diretto sulla vita quotidiana dei cittadini, conferendo diritti e imponendo doveri. In quanto cittadino di uno Stato, il singolo è soggetto a ordinamenti giuridici di diverso livello, come accade negli ordinamenti costituzionali federali. Analogamente a qualsiasi altro ordinamento giuridico, anche quello dell’UE dispone di un sistema coerente di tutela giuridica, cui ricorrere in caso di controversie riguardanti il diritto dell’UE e ai fini della sua stessa attuazione. Il diritto dell’UE regola altresì i rapporti tra l’UE e i suoi Stati membri. Questi ultimi devono adottare tutte le misure opportune per adempiere gli obblighi derivanti dai trattati o dagli atti delle istituzioni dell’UE. È loro compito agevolare il funzionamento dell’UE ed evitare qualsiasi azione che possa mettere a repentaglio la realizzazione degli scopi dei trattati. Gli Stati membri sono responsabili di fronte ai cittadini dell’UE di ogni pregiudizio che possa derivare loro dalla violazione del diritto dell’UE.

Le fonti del diritto dell’Unione europea

La nozione di «fonte giuridica» ha una duplice accezione. Nel significato originario del termine, si tratta della ragione dell’insorgenza del diritto, vale a dire la sua motivazione. In base a tale definizione, la fonte giuridica del diritto dell’UE è la volontà di preservare la pace e di creare un’Europa migliore tramite le relazioni economiche; aspetti questi, entrambi, cui l’UE deve la sua stessa esistenza. Nell’uso giuridico, la «fonte giuridica» è intesa come l’origine e la legittimazione del diritto.

I trattati costitutivi dell’Unione europea: diritto primario

La prima fonte giuridica è rappresentata dai trattati istitutivi dell’UE, ivi compresi gli allegati, le appendici e i protocolli, nonché le successive integrazioni e gli emendamenti. I trattati istitutivi, con le suddette integrazioni e modifiche, introdotte in particolare con i trattati di Maastricht, Amsterdam, Nizza e Lisbona, nonché i trattati di adesione, contengono i principi giuridici fondamentali concernenti gli obiettivi, l’organizzazione e la modalità di funzionamento dell’UE, nonché parti del diritto economico. Ciò vale anche per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona (articolo 6, paragrafo 1, TUE). Essi stabiliscono così il quadro giuridico costituzionale dell’UE, cui devono attenersi, nell’interesse dell’Unione, le istituzioni dell’UE, dotate a tal fine di appositi poteri legislativi e amministrativi. In quanto diritto emanato direttamente dagli Stati membri, tali norme giuridiche vengono definite, nell’uso giuridico, diritto primario dell’UE.

Il grafico illustra le fonti del diritto dell'UE, tra cui il diritto primario e derivato, gli accordi internazionali dell'UE, i principi generali del diritto e le convenzioni tra Stati membri.

Le fonti del diritto dell'UE sono le seguenti. 1) Diritto primario, quali i trattati dell'UE, la Carta dei diritti fondamentali e i principi generali del diritto (costituzionale). 2) Accordi internazionali dell'UE. 3) Diritto derivato, quali atti giuridici di natura legislativa (regolamenti, direttive, decisioni), atti giuridici non legislativi (atti semplici, atti delegati, atti di esecuzione), atti giuridici non vincolanti (raccomandazioni e pareri) e altri atti non giuridici (accordi interistituzionali, risoluzioni, comunicazioni e programmi d'azione). 4) Principi generali del diritto. 5) Convenzioni tra Stati membri, quali accordi internazionali e decisioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio.

Gli atti giuridici dell’Unione europea: diritto derivato

Il diritto emanato in adempimento dei poteri conferiti alle istituzioni dell’UE viene chiamato diritto derivato e costituisce la seconda importante fonte del diritto dell’UE.

Esso consta di atti giuridici di natura legislativa («atti legislativi»), atti giuridici non legislativi (atti semplici, atti delegati, atti di esecuzione), atti giuridici non vincolanti (pareri, raccomandazioni) e altri atti non giuridici (ad esempio accordi interistituzionali, risoluzioni, comunicazioni, programmi d’azione). Tra gli «atti legislativi» (articolo 289 TFUE) rientrano, in particolare, gli atti giuridici adottati in base alla procedura legislativa ordinaria o speciale. Gli «atti delegati» (articolo 290 TFUE) sono atti non legislativi di portata generale e vincolanti che integrano o modificano determinati elementi non essenziali di un atto legislativo. Competente a porli in essere è la Commissione, che opera sulla base di un’espressa delega contenuta nell’atto legislativo. Allorché sono necessarie condizioni uniformi di attuazione di atti giuridicamente vincolanti dell’UE, è possibile ricorrere ad atti di esecuzione, adottati in genere dalla Commissione o, eccezionalmente, dal Consiglio (articolo 291 TFUE). Le istituzioni dell’UE possono formulare raccomandazioni e pareri sotto forma di atti giuridici non vincolanti. Sono previsti, infine, una serie di «atti» con i quali le istituzioni dell’UE possono esprimersi in modo non vincolante per regolare la vita interna dell’UE o delle sue istituzioni, come accade, ad esempio, con gli accordi amichevoli o gli accordi interistituzionali, o anche attraverso i regolamenti interni delle istituzioni.

Questi atti con o senza carattere legislativo possono assumere forme diverse. Le modalità principali di intervento sono elencate e definite in un catalogo (articolo 288 TFUE), che contiene regolamenti, direttive e decisioni come forme giuridiche vincolanti. Come forme giuridiche non vincolanti questo catalogo contiene raccomandazioni e pareri. Tale elenco non è però esaustivo. Al contrario, sono possibili molte altre forme di intervento, che non si possono classificare in un catalogo, tra cui risoluzioni, dichiarazioni, programmi d’azione, libri bianchi e libri verdi. Profonde sono le differenze tra le diverse tipologie di atti, con riguardo alla procedura di adozione, ai loro effetti giuridici, nonché ai destinatari. Tali differenze saranno pertanto oggetto di analisi più avanti, in un separato capitolo dedicato agli «strumenti» dell’Unione europea.

ATTI GIURIDICAMENTE VINCOLANTI

  • Regolamenti
  • Direttive
  • Decisioni

ATTI LEGISLATIVI

= Atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria

ATTI SEMPLICI

= Atti non adottati secondo la procedura legislativa

ATTI DELEGATI

Articolo 290 TFUE

ATTI DI ESECUZIONE

Articolo 291 TFUE

ATTI NON VINCOLANTI

  • Raccomandazioni
  • Pareri

ALTRE FORME DI INTERVENTO, DIVERSE DAGLI ATTI GIURIDICI

  • Risoluzioni
  • Dichiarazioni
  • Comunicazioni della Commissione
  • Programmi d’azione
  • Libri bianchi
  • Libri verdi

L’evoluzione del diritto derivato dell’UE è graduale e costante. Il diritto derivato conferisce linfa vitale al diritto primario dell’UE, contenuto nei trattati, e nel corso del tempo realizza e completa l’ordinamento giuridico europeo.

Gli accordi internazionali conclusi dall’Unione europea

La terza fonte di diritto dell’UE è legata al ruolo dell’UE sul piano internazionale. Data la sua posizione centrale nel panorama internazionale, l’Europa non può limitarsi a occuparsi dei suoi affari interni, ma deve anche sforzarsi di sviluppare relazioni economiche, sociali e politiche con altri paesi. A tale scopo l’UE conclude con gli «Stati non membri» dell’UE (i cosiddetti paesi terzi) e con altre organizzazioni internazionali accordi, tra cui meritano una menzione speciale i seguenti:

Accordi di associazione

L’associazione è molto più che una semplice regolamentazione commerciale e consente una stretta cooperazione economica associata a un ampio sostegno finanziario dell’UE all’altra parte contraente (articolo 217 TFUE). Si possono distinguere tre tipi di accordi di associazione.

Accordi per il mantenimento delle relazioni particolari di alcuni Stati membri dell’UE con Stati non membri

L’istituto dell’associazione è stato creato per tenere conto, in particolare, dei paesi e dei territori extraeuropei che, quali ex colonie, intrattenevano relazioni economiche particolarmente strette con Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito. La previsione di norme specifiche si è resa necessaria a seguito dell’istituzione di un regime doganale esterno comune per l’UE, che influiva negativamente sugli scambi commerciali con tali territori. Scopo dell’associazione è promuovere lo sviluppo economico e sociale di tali paesi e territori e instaurare strette relazioni economiche tra essi e l’UE nel suo insieme (articolo 198 TFUE). È stata introdotta, in particolare, una serie di regimi preferenziali che prevedono l’applicazione di tariffe doganali agevolate o l’esenzione dai dazi all’importazione di merci da tali Stati e territori. L’aiuto tecnico e finanziario dell’UE viene erogato attraverso il Fondo europeo per lo sviluppo. Nella pratica, il più importante tra tali accordi è certamente l’accordo di partenariato ACP-UE, concluso dall’UE con 70 Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP). Questo accordo è di recente confluito in accordi di partenariato economico articolati a livello regionale che garantiranno ai paesi dell’ACP un graduale libero accesso al mercato interno europeo.

Accordi per la preparazione di un’eventuale adesione all’Unione europea e per l’istituzione di un’unione doganale

Un’altra funzione dell’associazione consiste nel preparare l’eventuale adesione di un paese all’UE. Si tratta allo stesso tempo di uno stadio preliminare di adesione, inteso a consentire il ravvicinamento delle condizioni economiche del paese candidato all’adesione a quelle dell’UE. Questa strategia è attualmente applicata ai paesi dei Balcani occidentali (Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Serbia). Qui il processo di adesione è affiancato da un processo allargato di stabilizzazione e associazione (PSA), che rappresenta le condizioni per l’avvicinamento degli Stati dei Balcani occidentali all’UE, sino a una loro futura adesione. Il PSA si pone tre obiettivi: 1) stabilizzazione e rapido passaggio a un’economia di mercato funzionante; 2) promozione della cooperazione regionale e 3) prospettiva di adesione all’UE. Il processo di stabilizzazione e di associazione si basa su un partenariato continuo in cui l’UE offre concessioni commerciali, sostegno economico e finanziario, e su un vincolo contrattuale sotto forma di accordi di stabilizzazione e di associazione. Per soddisfare le esigenze di un’eventuale adesione, ogni paese deve compiere progressi concreti nel processo di stabilizzazione e di associazione. Nei rapporti annuali si esegue una valutazione del progresso dei paesi dei Balcani occidentali in direzione di una possibile adesione all’UE.

Accordo sullo Spazio economico europeo (SEE)

L’accordo sul SEE consente ai restanti membri dell’Associazione europea di libero scambio, cioè Islanda, Liechtenstein e Norvegia, l’accesso al mercato interno dell’UE e costituisce, attraverso l’obbligo di recepire quasi due terzi del diritto dell’UE, una solida base per il futuro ingresso di tali paesi nell’UE. All’interno del SEE dovrebbe essere realizzata, sulla base del patrimonio esistente del diritto dell’UE, primario e derivato («acquis comunitario») la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali; si dovrebbe altresì istituire un regime uniforme di concorrenza e di aiuti, nonché rafforzare la cooperazione nel settore delle politiche orizzontali e di accompagnamento (ad esempio tutela dell’ambiente, ricerca e sviluppo, istruzione).

Due persone che indossano indumenti invernali camminano lungo una strada innevata costeggiata da case colorate che scende verso il mare, con una montagna innevata sullo sfondo.

La Norvegia (nell’immagine, l’arcipelago delle Svalbard) appartiene al SEE, che comprende anche l’Islanda e il Liechtenstein, oltre ai 27 Stati membri dell’UE. Nel SEE sono rispettate le quattro libertà di circolazione di merci, persone, servizi e capitali.

Accordi di cooperazione

Gli accordi di cooperazione non hanno la stessa portata degli accordi di associazione, in quanto mirano unicamente ad approfondire la cooperazione economica. Accordi di questo genere sono stati conclusi dall’UE con gli Stati del Maghreb (Algeria, Marocco e Tunisia), gli Stati del Mashrek (Egitto, Giordania, Libano e Siria) e Israele.

Accordi commerciali

Numerosi accordi commerciali sono stati infine conclusi in materia di politica doganale e commerciale con singoli paesi terzi, gruppi di paesi terzi o nel quadro di organizzazioni commerciali internazionali. Gli accordi commerciali internazionali più importanti sono l’accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio e gli accordi commerciali multilaterali conclusi nel quadro di quest’ultimo, in particolare: l’accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio del 1994, il codice antidumping e delle sovvenzioni, l’accordo generale sugli scambi di servizi, l’accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio e l’intesa sulle norme e sulle procedure che disciplinano la risoluzione delle controversie. Inoltre gli accordi bilaterali di libero scambio hanno guadagnato sempre più terreno rispetto agli accordi multilaterali. Ad esempio, a causa delle enormi difficoltà nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio a concludere accordi multilaterali di liberalizzazione, tutte le principali economie commerciali, tra cui l’UE, hanno preferito stringere accordi bilaterali di libero scambio. Gli esempi più recenti sono rappresentati dalla conclusione con esito positivo dei negoziati commerciali con il Canada, il Cile, il Giappone, il Messico, Singapore, la Corea del Sud, il Vietnam, i paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) e la Nuova Zelanda, nonché la conclusione di un accordo di partenariato tra l’UE e l’Organizzazione degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (OSACP, ex Stati ACP). Sono in corso ulteriori negoziati commerciali, in particolare con l’Australia, l’India e l’Indonesia.

Le fonti non scritte

Le fonti del diritto dell’UE finora descritte presentano una caratteristica comune: si tratta sempre di diritto scritto. Come ogni altro ordinamento giuridico però anche quello dell’UE non può consistere unicamente di norme scritte, dato che presenta lacune che possono essere colmate solo dal diritto non scritto.

Principi generali del diritto

Le fonti non scritte del diritto dell’UE sono innanzi tutto i principi generali del diritto. Si tratta di norme che esprimono i concetti essenziali di diritto e giustizia ai quali si ispira ogni ordinamento giuridico. Il diritto scritto dell’UE che sostanzialmente regola solo fatti economici e sociali, può soddisfare solo parzialmente tale obbligo, tanto che i principi generali del diritto costituiscono una delle fonti più importanti del diritto dell’UE. Ricorrendo ai principi generali è possibile colmare eventuali lacune o dare un’interpretazione estensiva alle norme esistenti, secondo il principio di equità.

I principi del diritto si realizzano tramite la loro applicazione, in particolare nell’ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale, nell’ambito dei compiti ad essa conferiti, «assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del trattato». Punti di riferimento per l’individuazione dei principi generali del diritto sono soprattutto i principi comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, che costituiscono il materiale a partire dal quale vengono sviluppate, a livello di UE, le norme necessarie per la soluzione di un determinato problema.

Oltre ai principi fondamentali dell’autonomia, dell’applicabilità diretta e della preminenza del diritto dell’UE, rientrano tra i principi giuridici generali anche la protezione dei diritti fondamentali (in ogni caso per la Polonia che non è soggetta alla Carta dei diritti fondamentali in base all’«opt-out»), il principio di proporzionalità (che ora è sottoposto a una norma giuridica positiva di cui all’articolo 5, paragrafo 4 TUE), la tutela dell’affidamento legittimo, il diritto di audizione o, ancora, il principio della responsabilità degli Stati membri in caso di violazione del diritto dell’UE.

Il diritto consuetudinario

Anche il diritto consuetudinario figura tra le fonti non scritte del diritto dell’UE. Con tale locuzione si indica un diritto derivato dalla pratica e dall’accettazione giuridica, che completa o modifica la normativa primaria o derivata. In linea di principio è riconosciuta la possibilità che esista un diritto consuetudinario europeo. Tuttavia, nella pratica, a livello di diritto dell’UE si pongono ostacoli considerevoli alla sua concreta formazione. Un primo ostacolo riguarda l’esistenza di una procedura speciale per la revisione dei trattati (articolo 48 TUE). Benché non escluda in realtà la costituzione di un diritto consuetudinario, tale disposizione rende più difficile rispondere ai criteri dell’esercizio prolungato e dell’accettazione giuridica. Un altro ostacolo alla costituzione di un diritto consuetudinario da parte delle istituzioni dell’UE consiste nel fatto che ogni azione di un’istituzione trova conferma della sua validità solo nei trattati e non nel comportamento concreto o nella volontà dell’istituzione di creare vincoli giuridici. Ne consegue che il diritto consuetudinario non può in alcun caso essere desunto dalle istituzioni dell’UE a livello dei trattati; può tutt’al più derivare dagli Stati membri, unicamente nel quadro delle sopracitate rigorose condizioni. L’esercizio e l’accettazione giuridica da parte delle istituzioni dell’UE possono tuttavia essere presi in considerazione nell’ambito dell’interpretazione delle norme provenienti da tali istituzioni, cosicché, a determinate condizioni, ne può conseguire la modifica della portata giuridica e oggettiva dell’atto giuridico interessato. Anche in questo caso occorre tenere conto dei presupposti e dei limiti imposti dal diritto primario dell’UE.

Gli accordi tra gli Stati membri dell’UE

Come ultima fonte del diritto dell’UE, vanno ricordati gli accordi fra gli Stati membri. Accordi di questo tipo possono essere conclusi per disciplinare questioni che hanno una stretta attinenza con le attività dell’UE, ma per le quali le istituzioni dell’UE non sono state dichiarate competenti (ad esempio, il trattato del 2012 sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, noto anche come patto di bilancio, concluso senza la Cechia). D’altro lato, sono stati conclusi veri e propri trattati internazionali tra gli Stati membri intesi, in particolare, a superare la limitata efficacia territoriale delle norme nazionali e a introdurre un diritto uniforme a livello dell’UE. Rivestono carattere di importanza anzitutto nell’ambito del diritto privato internazionale .

Gli strumenti dell’azione dell’Unione europea

Il conseguimento degli obiettivi perseguiti dall’UE richiede interventi da parte degli organi dell’Unione europea che consentano di equilibrare le diverse e diseguali condizioni economiche, sociali e, non da ultimo, ambientali presenti negli Stati membri. Il diritto dell’UE deve pertanto mettere a disposizione un insieme di atti giuridici, che sono necessari e disponibili anche per gli organi degli Stati ai fini dello svolgimento di compiti nazionali.

Tuttavia non è stato possibile prendere in considerazione l’uso intrinsecamente ovvio degli strumenti d’azione tradizionali degli Stati membri, semplicemente perché gli Stati hanno utilizzato forme di azione diverse a livello nazionale e l’adozione di un modello di singolo Stato membro potrebbe difficilmente soddisfare le esigenze e gli interessi dell’UE. Già all’epoca dell’istituzione della CEE, quest’ultima si è trovata quindi di fronte al difficile compito di «sviluppare» un insieme di strumenti d’azione orientato alle strutture e ai compiti della Comunità. Si rendeva necessario innanzitutto definire la natura e gli effetti di tali atti giuridici dell’UE. Occorreva prevedere, da un lato, che le istituzioni potessero conciliare in maniera efficace, vale a dire senza dipendere dalla buona volontà degli Stati membri, le diverse condizioni economiche, sociali e, non ultimo, ecologiche presenti negli Stati membri, per poter offrire a tutti i cittadini dell’UE le migliori condizioni di vita possibili. D’altro canto, si doveva intervenire sugli ordinamenti giuridici nazionali solo entro i limiti del necessario. Gli atti giuridici e l’attività legislativa dell’UE, nel loro insieme, rispondono pertanto al principio per cui, qualora si renda necessaria una precisa regolamentazione comune a tutti gli Stati membri, le norme nazionali devono essere sostituite da un atto dell’UE, mentre se tale esigenza non sussiste, va debitamente tenuto conto delle preesistenti norme di diritto nazionale.

In tale contesto è stato sviluppato un insieme di strumenti che consentono alle istituzioni dell’UE di intervenire in misura diversa negli ordinamenti giuridici nazionali. Il caso estremo è la sostituzione delle normative nazionali con disposizioni del diritto dell’UE. Occorre poi citare le norme con le quali le istituzioni dell’UE influiscono solo in maniera indiretta sugli ordinamenti giuridici nazionali. Esiste inoltre la possibilità di disciplinare un caso concreto adottando misure nei confronti di un destinatario indicato nominativamente o altrimenti identificabile. Infine, sono previsti anche atti giuridici che non contengono disposizioni vincolanti nei confronti degli Stati membri o dei cittadini dell’UE.

Dal punto di vista dei loro destinatari e degli effetti che essi producono negli Stati membri, gli atti giuridici dell’UE di cui all’articolo 288 TFUE possono essere classificati come indicato nel riquadro sottostante.

Il grafico illustra i tipi di atti giuridici dell'UE fondati sull'articolo 288 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, compresi regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri.

Sulla base dell'articolo 288 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, il sistema degli atti giuridici dell'UE può essere suddiviso come segue. Regolamenti: si applicano a tutti gli Stati membri e a tutte le persone fisiche e giuridiche. Sono direttamente applicabili e obbligatori in tutti i loro elementi. Direttive: si applicano a tutti gli Stati membri o a Stati membri specifici. Sono vincolanti per quanto riguarda il risultato da raggiungere e sono direttamente applicabili solo in circostanze particolari. Decisioni (tipo 1): sono rivolte a tutti gli Stati membri o a Stati membri specifici e a persone fisiche o giuridiche specifiche. Sono direttamente applicabili e obbligatorie in tutti i loro elementi. Decisioni (tipo 2): non sono rivolte a destinatari specifici e sono obbligatorie in tutti i loro elementi. Raccomandazioni: sono rivolte a tutti gli Stati membri o a Stati membri specifici, ad altri organi dell'UE e a singole persone. Non sono vincolanti. Pareri: sono rivolti a tutti gli Stati membri o a Stati membri specifici, ad altri organi dell'UE e a gruppi di destinatari non definiti. Non sono vincolanti.

I regolamenti come «leggi dell’Unione europea»

Gli atti con i quali le istituzioni dell’UE possono incidere maggiormente sugli ordinamenti giuridici nazionali sono i regolamenti. Si caratterizzano per due aspetti assolutamente insoliti per il diritto internazionale:

  • il loro carattere unionale, vale a dire la specificità di stabilire, indipendentemente dai confini nazionali, lo stesso diritto in tutta l’UE. Sono uniformemente e integralmente validi in tutti gli Stati membri. Pertanto è vietato agli Stati membri applicare in modo parziale le disposizioni di un regolamento o effettuare una scelta fra di esse, al fine di disapplicare quelle norme cui uno Stato membro già si era opposto nel corso della procedura di decisione o che contrastano con determinati interessi nazionali. Uno Stato membro non può inoltre sottrarsi al carattere vincolante delle disposizioni di un regolamento, facendo riferimento a norme consuetudinarie del proprio diritto interno;
  • l’applicabilità diretta, vale a dire il fatto che le disposizioni di un regolamento sono applicabili senza una specifica norma cogente nazionale e conferiscono diritti o impongono doveri direttamente in capo ai cittadini dell’UE. Gli Stati membri, le loro istituzioni e le loro autorità sono direttamente vincolati dal diritto dell’UE e devono osservarlo alla stessa stregua del proprio diritto nazionale.

Le somiglianze tra questi atti e le leggi nazionali sono notevoli. Qualora vengano promulgati congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio (nel quadro della cosiddetta procedura legislativa ordinaria, cfr. in proposito il capitolo «La procedura legislativa nell’UE»), sono definiti «atti legislativi». Nel caso dei regolamenti emessi unicamente dal Consiglio o dalla Commissione europea, manca tale corresponsabilità parlamentare; tali atti non presentano pertanto, quanto meno formalmente, tutte le caratteristiche essenziali di una legge.

Direttive

La direttiva rappresenta, accanto al regolamento, lo strumento di intervento più importante dell’UE. Essa tenta di conciliare il perseguimento della necessaria uniformità del diritto dell’UE, da un lato, e la salvaguardia della molteplicità delle particolarità nazionali, dall’altro. L’obiettivo principale della direttiva non è quindi, come per il regolamento, l’unificazione del diritto, bensì il ravvicinamento delle legislazioni. Tramite il processo di ravvicinamento delle norme vengono superate le contraddizioni e gradualmente ridotte le differenze tra le legislazioni nazionali, per far sì che in ciascuno Stato membro sostanzialmente vigano condizioni quanto più possibile simili fra loro. La direttiva costituisce pertanto uno degli strumenti di base della realizzazione del mercato interno.

La direttiva vincola gli Stati membri solo in relazione all’obiettivo da raggiungere, ma lascia loro la scelta della forma e dei mezzi per l’attuazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno degli obiettivi prefissati a livello di UE. Questo coinvolgimento degli Stati membri riflette la volontà di attenuare le ingerenze dell’UE nei sistemi giuridici e amministrativi nazionali. In questo modo si consente agli Stati membri di tenere conto delle specificità nazionali all’atto della realizzazione degli obiettivi dell’UE. Questo accade grazie al meccanismo in base a cui le disposizioni di una direttiva non sostituiscono automaticamente le normative nazionali; gli Stati membri sono, al contrario, tenuti ad adeguare la propria legislazione nazionale alle disposizioni dell’UE. Ciò comporta normalmente una procedura legislativa in due fasi.

Nella prima fase viene stabilito, a livello di UE e in modo vincolante per i destinatari, ovvero alcuni o tutti gli Stati membri, l’obiettivo che la direttiva si prefigge e che i destinatari devono realizzare entro un termine stabilito. Le istituzioni dell’UE possono definire tale obiettivo in maniera così precisa da non lasciare agli Stati membri alcun margine di manovra quanto ai contenuti. Generalmente si ricorre a questa possibilità soprattutto nel settore delle norme tecniche e in quello della difesa dell’ambiente.

Due clienti in un negozio di elettrodomestici tengono in mano, affiancate, la nuova e la vecchia etichetta energetica dell'UE. Sulla nuova etichetta figurano un codice QR, pittogrammi aggiornati e una scala di efficienza energetica rivista, che va da A a G, mentre quella della vecchia etichetta va da A+++ a D.

La direttiva 2012/27/UE del 25 ottobre 2012 (direttiva sull’efficienza energetica) contiene un insieme di misure vincolanti per contribuire al conseguimento dell’obiettivo dell’UE in materia di efficienza energetica del 20 % per il 2020. Gli Stati membri dell’UE avevano l’obbligo di recepire la direttiva nella legislazione nazionale entro il 5 giugno 2014.

Nella seconda fase, a livello nazionale, l’obiettivo previsto nell’ambito del diritto dell’UE viene attuato all’interno dell’ordinamento degli Stati membri. Gli Stati membri sono in linea di massima liberi di scegliere la forma e i mezzi del recepimento; ciononostante si applicano i criteri stabiliti dall’UE per valutare se le norme sono state recepite in modo conforme al diritto dell’UE. Vale il principio in base al quale, con il recepimento, deve essere creata una situazione giuridica che permetta di determinare, in maniera sufficientemente chiara e precisa, diritti e doveri derivanti dalle disposizioni di una direttiva, in modo da permettere ai cittadini dell’UE di avvalersi di tale norma di fronte ai tribunali nazionali o di opporsi a essa. A tal fine è necessario, di solito, promulgare atti giuridici nazionali vincolanti oppure abrogare o modificare norme giuridiche e amministrative preesistenti. Una semplice applicazione da parte delle autorità amministrative non basta, in quanto una siffatta prassi potrebbe, in quanto tale, essere modificata a piacimento dalle autorità interessate e non godrebbe di una sufficiente pubblicità.

La direttiva in genere non stabilisce diritti e doveri direttamente in capo ai cittadini dell’UE; gli Stati membri sono gli unici destinatari diretti. Solo gli atti esecutivi delle autorità competenti degli Stati membri conferiscono diritti o impongono obblighi ai cittadini. Per i cittadini dell’UE sono irrilevanti le modalità con cui gli Stati membri adempiono gli obblighi loro derivanti dagli atti dell’UE. Eventuali svantaggi per i cittadini dell’UE possono insorgere quando, a causa della mancata o incompleta adozione dei necessari provvedimenti a livello nazionale, non si attua l’obiettivo previsto dalla direttiva che dovrebbe presentare vantaggi nei loro confronti. Per impedire tale situazione, la Corte di giustizia ha chiarito, in una giurisprudenza costante, che a determinate condizioni i cittadini dell’UE possono appellarsi direttamente alle disposizioni di una direttiva o raccomandazione, rivendicando i diritti che essa conferisce loro e, eventualmente, adire i tribunali nazionali. La Corte ha fissato i requisiti dell’effetto diretto, vale a dire:

  • le disposizioni della direttiva devono stabilire in maniera sufficientemente chiara e precisa i diritti dei cittadini dell’UE/delle imprese;
  • la rivendicazione di tali diritti non deve essere subordinata a nessun genere di obblighi e condizioni;
  • il legislatore nazionale non deve avere alcun margine discrezionale per quanto riguarda il contenuto della normativa;
  • il termine fissato per il recepimento della direttiva deve essere scaduto.

Tale giurisprudenza della Corte di giustizia sull’effetto diretto delle direttive si basa fondamentalmente sulla convinzione che uno Stato membro agisca in maniera contraddittoria e illegittima, qualora continui ad applicare il proprio diritto interno senza adempiere l’obbligo di adeguarlo alle disposizioni della direttiva. Un simile esercizio illegittimo del diritto da parte di uno Stato membro può essere contrastato con il riconoscimento dell’effetto diretto di una direttiva, impedendo così che lo Stato membro in questione possa trarre qualche vantaggio dalla mancata osservanza del diritto dell’UE. In questo senso, l’effetto diretto della direttiva riveste carattere sanzionatorio. In tale contesto è significativo che la Corte di giustizia abbia applicato il principio unicamente nei rapporti tra cittadino e Stato membro e solo quando la direttiva era favorevole al cittadino, non quando era a suo discapito, ovvero solo nei casi in cui la posizione del cittadino risultava più favorevole ai sensi della normativa modificata dalla direttiva rispetto a quanto previsto dalla normativa precedente (il cosiddetto «effetto diretto verticale»).

La Corte di giustizia ha invece negato l’effetto diretto delle direttive nei rapporti tra cittadini (il cosiddetto «effetto diretto orizzontale»). Il carattere sanzionatorio dell’effetto diretto porta la Corte di giustizia a concludere che tale effetto non può intervenire fra i privati, in quanto essi non possono essere considerati responsabili delle omissioni dello Stato, anzi, sono tutelati dai principi della certezza giuridica e del legittimo affidamento. I cittadini dell’UE devono quindi confidare nel fatto che gli effetti di una direttiva possano essere fatti valere nei loro confronti solo entro i limiti delle misure nazionali di attuazione. Tuttavia la Corte di giustizia ha sviluppato un principio di diritto primario in base al quale il contenuto di una direttiva, fintanto che rappresenta una concretizzazione del principio generale di non discriminazione, si applica anche alle relazioni private. La configurazione della Corte di giustizia supera il principio di non discriminazione che, nella sua concretizzazione mediante la direttiva pertinente, obbliga le autorità statali, e in particolare i giudici nazionali, a esercitare nell’ambito della loro giurisdizione la tutela giuridica che si applica agli individui in base al diritto dell’UE per garantire la piena efficacia del diritto comunitario, trascurando ogni disposizione di diritto nazionale contraria a tale divieto. Di conseguenza, a causa della supremazia del diritto dell’UE il principio di non discriminazione nella sua forma si afferma attraverso la pertinente direttiva sulla contrapposta legislazione nazionale. La Corte di giustizia non contesta tuttavia la sua giurisprudenza relativa alla mancanza dell’effetto orizzontale delle direttive, bensì de facto, in relazione al principio di non discriminazione, giunge alla stessa conclusione in tutti i casi in cui una direttiva concretizza il principio di non discriminazione. Tale concretizzazione è stata finora riconosciuta dalla Corte di giustizia per quanto riguarda le direttive relative alla discriminazione classica a motivo della nazionalità, del sesso o dell’età. Tuttavia, lo stesso dovrebbe valere per tutte le direttive adottate per combattere i motivi di discriminazione di cui all’articolo 19 TFUE.

L’effetto diretto di una direttiva non presuppone necessariamente che una sua disposizione riconosca un diritto a un singolo. Le disposizioni di una direttiva hanno infatti un effetto diretto anche nella misura in cui producono effetti giuridici oggettivi. Per il riconoscimento di un simile effetto valgono le medesime condizioni previste per l’effetto diretto, con la particolarità che, invece di un diritto stabilito in maniera sufficientemente chiara e precisa in capo alle imprese e ai cittadini dell’UE, deve essere individuato in maniera chiara e precisa un obbligo in capo agli Stati membri. In tal caso tutte le istituzioni, ovvero il legislatore, le autorità amministrative e gli organi giurisdizionali, sono vincolati alla direttiva e sono quindi tenuti a dare preminenza al diritto dell’UE e ad applicarlo d’ufficio. Ne consegue, nella pratica, anche l’obbligo di interpretare il diritto nazionale in modo conforme alla direttiva («interpretazione conforme alla direttiva») o di privilegiare l’applicazione delle disposizioni interessate della direttiva rispetto a quelle della norma nazionale contrastante. Ancora prima che scada il termine di recepimento della direttiva si verificano peraltro determinati effetti preclusivi a carico degli Stati membri. In considerazione degli obiettivi vincolanti posti dalla direttiva e avuto riguardo al principio di lealtà verso l’UE (articolo 4 TUE), gli Stati membri devono astenersi, già prima della scadenza del termine di recepimento, dal compiere atti che possano seriamente mettere a rischio il raggiungimento degli scopi della direttiva.

Nella sentenza pronunciata nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90 Francovich e Bonifaci del 1991 la Corte di giustizia ha inoltre riconosciuto l’obbligo degli Stati membri di risarcire i danni provocati dalla mancata o non corretta attuazione delle direttive. Tali cause vertevano sul problema della responsabilità dello Stato italiano per il mancato recepimento, entro il termine fissato, della direttiva 80/987/CEE del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. La direttiva garantisce ai lavoratori il diritto alla retribuzione durante un certo periodo che precede la dichiarazione di insolvenza del datore di lavoro o il licenziamento del dipendente per questo motivo. A tal fine dovevano pertanto essere creati istituti di garanzia, non aggredibili da parte di altri creditori del datore di lavoro, i cui fondi dovevano essere costituiti mediante contributi dei datori di lavoro e/o dello Stato. La Corte di giustizia in questo caso si trovava di fronte al seguente problema: la direttiva in questione mirava indubbiamente a riconoscere ai lavoratori un diritto soggettivo al pagamento della retribuzione grazie ai fondi del previsto istituto di garanzia, ma tale diritto non poteva essere direttamente riconosciuto, ovvero non poteva essere invocato di fronte ai tribunali nazionali in quanto, a causa del mancato recepimento della direttiva, non era stato creato l’istituto di garanzia e quindi non era stato possibile determinare il debitore che doveva provvedere al pagamento dell’indennità di insolvenza. La Corte di giustizia ha dichiarato in questa sentenza che lo Stato italiano, non attuando la direttiva, aveva privato i lavoratori di un diritto che la medesima aveva loro conferito e pertanto si era reso responsabile del risarcimento dei danni nei loro confronti. Secondo la Corte di giustizia l’obbligo di risarcimento, benché non sia espressamente previsto nel diritto dell’UE, costituisce una parte inscindibile dell’ordinamento giuridico dell’UE, in quanto quest’ultimo vedrebbe ostacolata la sua piena efficacia e la tutela dei diritti da esso riconosciuti verrebbe meno se i cittadini dell’UE non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento in caso di lesione dei loro diritti a seguito di una violazione del diritto dell’UE da parte degli Stati membri4.

Decisioni

Con il trattato di Lisbona, una nuova forma di atto giuridico è stata inclusa nel catalogo degli atti: le «decisioni». Si devono distinguere due categorie di decisioni: decisioni che designano i destinatari e decisioni generali che non designano i destinatari (cfr. articolo 288, quarto comma, TFUE). Mentre le decisioni che designano i destinatari sostituiscono le «decisioni» precedenti sulla regolamentazione di singoli casi, le decisioni generali che non designano i destinatari comprendono una varietà di tipi di normative accomunate dal fatto di non avere la finalità di regolamentare casi individuali. Questa uguale denominazione assegnata a due forme molto diverse di atti giuridici è deplorevole, in quanto gli inevitabili problemi che comporta generano una grave incertezza giuridica. Sarebbe stato meglio mantenere la nozione in precedenza utilizzata per le misure volte a disciplinare casi individuali con effetti giuridici verso l’esterno e introdurre un termine aggiuntivo per gli altri atti giuridici vincolanti.

Le decisioni che designano i destinatari costituiscono l’atto tipico con cui le istituzioni dell’UE, in particolare il Consiglio e la Commissione, svolgono le loro funzioni esecutive. Tale decisione può esigere da parte di uno Stato membro, di un’impresa o di un cittadino di procedere a un’azione o di astenersene, nonché conferire loro diritti o imporre doveri. Si tratta di una situazione del tutto analoga a quella esistente negli ordinamenti giuridici nazionali, nei quali le amministrazioni interne stabiliscono, mediante un provvedimento amministrativo, le conseguenze giuridicamente vincolanti per i cittadini dell’applicazione di una legge al caso specifico.

Questa forma di decisione presenta le seguenti caratteristiche strutturali.

  • La decisione ha validità individuale, distinguendosi in ciò dal regolamento. I destinatari di una decisione devono essere identificati e sono vincolati solo individualmente. A tal fine è sufficiente che la categoria di persone interessata sia determinabile al momento dell’adozione della decisione e successivamente non possa più essere estesa. Al riguardo è rilevante soprattutto il contenuto della decisione, che deve essere in grado di influire in modo individuale e diretto sulla situazione dei soggetti di diritto. In questo senso anche soggetti terzi possono essere interessati individualmente da una decisione, ad esempio in base a determinate caratteristiche personali o circostanze particolari che li distinguono da tutte le altre persone, individuandoli analogamente al destinatario stesso.
  • La decisione è vincolante in tutti i suoi elementi, aspetto questo che la differenzia dalla direttiva, la quale è vincolante solo per ciò che concerne gli obiettivi da raggiungere.
  • La decisione vincola direttamente i destinatari. Una decisione destinata a uno Stato membro può inoltre, alle stesse condizioni di una direttiva, avere un effetto diretto sui cittadini comunitari.

Le decisioni generali che non designano i destinatari sono vincolanti in tutte le loro parti, ma non è chiaro a chi si rivolge il vincolo. In definitiva, ciò può essere determinato solo dal contenuto della relativa decisione. Nelle decisioni generali si distinguono i tipi di regolamentazione di seguito indicati.

  • Decisioni che modificano le disposizioni del trattato. Queste decisioni si applicano in astratto, ovvero sono vincolanti per tutte le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’UE e per gli Stati membri. Si possono citare ad esempio le decisioni volte a semplificare le procedure di adozione [articolo 81, paragrafo 3 e articolo 192, paragrafo 2, lettera c), TFUE] o per facilitare i requisiti di maggioranza (articolo 312, paragrafo 2 e articolo 333, paragrafo 1, TFUE).
  • Decisioni sulla concretizzazione del diritto contrattuale. Queste decisioni hanno un effetto vincolante per l’UE nel suo complesso o per le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’UE interessati in caso di decisione sulla loro composizione; non hanno alcun effetto esterno per i singoli individui.
  • Decisioni per l’adozione del diritto intra e interistituzionale. Queste decisioni vincolano le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’UE interessati e coinvolti. Ne sono esempio i regolamenti interni delle istituzioni dell’UE (diritto intraistituzionale) e gli accordi interistituzionali stipulati tra le istituzioni dell’UE (diritto interistituzionale).
  • Decisioni nell’ambito dei poteri organizzativi. Queste decisioni (ad esempio nomine, retribuzione) vincolano i rispettivi funzionari o i membri delle istituzioni.
  • Decisioni sulla governance. Queste decisioni entrano in conflitto con i regolamenti e le direttive, ma non sono finalizzate a un effetto esterno giuridicamente vincolante per i singoli individui. Di norma l’effetto vincolante sulle istituzioni coinvolte nell’adozione è limitato, soprattutto quando si tratta di orientamenti o di linee guida per la politica futura. Solo eccezionalmente tali decisioni hanno effetti giuridici astratti generali o effetti finanziari.
  • Decisioni nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune. Queste decisioni sono giuridicamente vincolanti per l’UE. Per quanto riguarda gli Stati membri, l’effetto vincolante è limitato da norme particolari (ad esempio articolo 28, paragrafi 2 e 5, e articolo 31, paragrafo 1, TUE). Non sono soggette alla giurisdizione della Corte di giustizia.

Raccomandazioni e pareri

Un’ultima categoria di atti giuridici prevista espressamente dai trattati sull’UE è costituita dalle raccomandazioni e dai pareri, con i quali le istituzioni dell’UE possono esprimersi in maniera non vincolante nei confronti degli Stati membri e, in alcuni casi, anche dei cittadini dell’UE, senza imporre obblighi giuridici ai destinatari.

Con le raccomandazioni si consiglia al destinatario un determinato comportamento, senza però imporre un obbligo giuridico. Quando vi sia motivo di temere che l’emanazione o la modifica di una disposizione legislativa, regolamentare o amministrativa di uno Stato membro possa falsare le condizioni di concorrenza nel mercato interno, la Commissione può, ad esempio, raccomandare allo Stato interessato le misure idonee a evitare la distorsione (cfr. articolo 117, paragrafo 1, seconda frase, TFUE).

Le istituzioni dell’UE emettono pareri quando intendono esprimere un giudizio su una situazione oggettiva o su determinate fattispecie all’interno dell’UE o in uno Stato membro. In taluni casi i pareri creano anche le condizioni preliminari per futuri atti giuridici vincolanti o costituiscono una premessa per un ricorso alla Corte di giustizia (cfr. articoli 258 e 259 TFUE).

L’importanza fondamentale delle raccomandazioni e dei pareri è innanzitutto di ordine politico e morale. Gli autori dei trattati, nel prevedere tali atti, hanno preso le mosse dalla convinzione che gli interessati aderiscano volontariamente alle raccomandazioni loro rivolte o, in considerazione del prestigio di cui godono le istituzioni dell’UE nonché della loro profonda conoscenza del contesto internazionale, traggano le necessarie conseguenze da un giudizio espresso su una determinata situazione. Tuttavia anche le raccomandazioni e i pareri possono produrre effetti giuridici indiretti, quando creano le condizioni per futuri atti giuridici vincolanti o quando l’istituzione dell’UE in questione si impegna in prima persona, il che può, in determinate circostanze, creare una situazione di legittimo affidamento.

Risoluzioni, dichiarazioni e programmi d’azione

Oltre agli atti giuridici previsti dai trattati, le istituzioni dell’UE dispongono anche di una varietà di altri strumenti di azione per modellare l’ordinamento giuridico dell’UE. Nella prassi dell’UE gli strumenti più importanti sono in primis le risoluzioni, le dichiarazioni e i programmi d’azione.

Risoluzioni. Possono essere adottate dal Parlamento, dal Consiglio europeo e dal Consiglio. Nelle risoluzioni trovano espressione le intenzioni e le opinioni comuni sul processo d’integrazione in generale e su specifici compiti a livello di UE e al di fuori di essa. Le risoluzioni relative agli affari interni dell’UE si riferiscono, ad esempio, ad aspetti fondamentali dell’unione politica, della politica regionale, della politica dell’energia e dell’Unione economica e monetaria, in particolare in merito all’attuazione del sistema monetario europeo. L’importanza politica di tali risoluzioni consiste soprattutto nel contributo offerto per orientare i lavori futuri del Consiglio. In quanto manifestazioni della volontà politica comune, esse consentono di trovare più facilmente un’intesa in seno al Consiglio. Inoltre le risoluzioni garantiscono un livello minimo di coordinamento a livello decisionale tra le autorità nazionali e dell’UE. Ogni valutazione giuridica deve tenere conto anche di tale funzione, il che significa che le risoluzioni devono rimanere uno strumento flessibile, senza subire troppe restrizioni in virtù di esigenze e obblighi giuridici.

Dichiarazioni. Le dichiarazioni possono essere di due tipi. Qualora esse si riferiscano all’ulteriore sviluppo dell’UE come nel caso, ad esempio, delle dichiarazioni relative all’UE, alla democrazia o ai diritti fondamentali, esse sono sostanzialmente simili alle risoluzioni. Le dichiarazioni sono utilizzate soprattutto per rivolgersi a un largo pubblico o a un gruppo specifico di destinatari. Altre dichiarazioni sono rilasciate nel quadro del processo decisionale del Consiglio. Tramite tali dichiarazioni, membri del Consiglio esprimono pareri congiunti o individuali sull’interpretazione delle decisioni adottate in seno allo stesso Consiglio. Tali dichiarazioni interpretative sono di uso corrente in seno al Consiglio e rappresentano uno strumento indispensabile nella ricerca di un compromesso. La portata giuridica di tali dichiarazioni va valutata alla luce dei principi generali di interpretazione, secondo i quali l’interpretazione di una disposizione sostanzialmente dipende anche dall’intenzione del suo autore. Tale tesi tuttavia si applica unicamente nel caso in cui le dichiarazioni dispongano della necessaria pubblicità, dal momento che, ad esempio, il diritto derivato dell’UE, conferendo diritti diretti ai cittadini, non può essere limitato da clausole accessorie non rese pubbliche.

Programmi d’azione. Tali programmi sono stabiliti dal Consiglio e dalla Commissione su loro iniziativa o su richiesta del Consiglio europeo e sono finalizzati alla realizzazione dei programmi legislativi e degli obiettivi generali previsti dai trattati. Qualora tali programmi siano espressamente previsti dai trattati, le istituzioni dell’UE sono tenute a rispettarne il contenuto in sede di pianificazione dei programmi. Di contro, altri programmi sono considerati, nella prassi, come semplici orientamenti, privi di ogni effetto giuridico vincolante. Tuttavia esprimono la volontà delle istituzioni di conformarsi alle loro disposizioni.

Anche i libri bianchi e i libri verdi sono di notevole importanza nella prassi dell’UE. I libri bianchi pubblicati dalla Commissione contengono proposte concrete per le misure dell’UE da adottare in una determinata area politica. Se viene accolto positivamente dal Consiglio, un libro bianco può costituire la base di un programma d’azione dell’UE. Ne sono esempio il libro bianco sul futuro dell’Europa (2017) o sull’intelligenza artificiale (2020). I libri verdi mirano a fornire spunti di riflessione su argomenti specifici a livello dell’UE e costituiscono la base per una consultazione e discussione pubblica sulla complessità dei temi in essi trattati. In taluni casi, forniscono l’impulso per lo sviluppo di norme giuridiche che vengono poi illustrate nei libri bianchi.

Pubblicazione e comunicazione

Gli atti legislativi e gli atti giuridicamente vincolanti dell’UE vengono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, serie L (L  = Legislazione). Entrano in vigore alla data in essi stabilita o, in mancanza di tale data, il ventesimo giorno dopo la pubblicazione.

Gli atti non vincolanti non sono soggetti a pubblicazione o comunicazione. In genere vengono tuttavia pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, serie C («Comunicazioni e informazioni», C  = Comunicazione). Tutti i documenti ufficiali delle istituzioni, degli organi e delle agenzie dell’UE vengono anch’essi pubblicati nella serie C.

Gli atti rivolti a destinatari espressamente designati vengono comunicati ai destinatari e divengono efficaci mediante detta comunicazione.

La procedura legislativa nell’Unione europea

A differenza di quanto avviene nei sistemi nazionali, dove il processo di formazione della volontà si realizza nel Parlamento, nell’Unione europea tale processo è stato per lungo tempo appannaggio dei rappresentanti dei governi riuniti in seno al Consiglio dell’UE. Il motivo è semplice: l’UE non è nata da un «popolo europeo», ma deve la sua esistenza e struttura agli Stati membri. Questi però non hanno rinunciato a tutti gli effetti a una parte della loro sovranità a favore dell’UE, ma hanno compiuto tale passo solo in cambio del riconoscimento di una posizione di forza nel processo decisionale dell’UE. Nel corso dell’evoluzione e dell’approfondimento dell’ordinamento giuridico dell’UE tuttavia anche questa ripartizione delle competenze nel processo decisionale dell’UE, in una prima fase incentrata unilateralmente sugli interessi degli Stati membri, ha ceduto il passo a un sistema decisionale più equilibrato, grazie al costante miglioramento della posizione del Parlamento europeo. Si è passati così dalla mera consultazione del Parlamento a una collaborazione tra Parlamento e Consiglio, e successivamente alla codecisione del Parlamento nel processo legislativo dell’UE.

Il grafico illustra la procedura di adozione degli atti legislativi nell'Unione europea.

La procedura di adozione degli atti legislativi si articola nei passaggi seguenti. La Commissione europea presenta proposte al Parlamento europeo (prima lettura), che esprime la sua posizione, e al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, che esprimono il loro parere. Le proposte sono successivamente inoltrate al Consiglio per una prima lettura. Se il Parlamento non propone emendamenti o se il Consiglio approva tutti gli emendamenti, e dopo negoziati di trilogo tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione, l'atto legislativo può essere adottato. In caso contrario il Consiglio presenta la propria posizione al Parlamento e la proposta viene inviata nuovamente al Parlamento per una seconda lettura. Se la posizione del Consiglio è approvata, l'atto è adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio. Se la posizione del Consiglio è respinta dalla maggioranza dei deputati del Parlamento europeo, la procedura legislativa si conclude e l'atto non è adottato. Se la maggioranza dei deputati propone emendamenti, la Commissione può approvarli o respingerli. La proposta è successivamente inoltrata al Consiglio per una seconda lettura. Se il Consiglio approva gli emendamenti deliberando a maggioranza qualificata o all'unanimità, l'atto è adottato. Se il Consiglio respinge gli emendamenti, la proposta è inviata al comitato di conciliazione (composto da rappresentanti del Parlamento e del Consiglio). Se viene raggiunto un accordo, l'esito è confermato in terza lettura dal Parlamento e dal Consiglio. Se il comitato di conciliazione non raggiunge un accordo, l'atto viene considerato respinto e la procedura legislativa si conclude.

La procedura legislativa dell’UE è stata riorganizzata e strutturata dal trattato di Lisbona. Si devono operare le seguenti distinzioni:

  1. gli atti legislativi sono adottati secondo la procedura legislativa ordinaria (articolo 289, paragrafo 1, TFUE), che corrisponde sostanzialmente alla precedente procedura di codecisione ed è la norma per quanto riguarda la legislazione a livello dell’UE, e la procedura legislativa speciale (articolo 289, paragrafo 2, TFUE), nell’ambito della quale gli atti legislativi possono essere adottati dal Parlamento con la partecipazione del Consiglio o dal Consiglio con la partecipazione del Parlamento;
  2. alcuni atti giuridici, prima di entrare in vigore, devono essere sottoposti a una procedura di parere conforme da parte del Parlamento;
  3. gli atti non legislativi seguono una procedura semplificata;
  4. sono previste procedure specifiche per l’adozione di atti delegati e atti di esecuzione.

Procedura

Fase di elaborazione di una proposta

La procedura viene avviata di norma dalla Commissione, la quale elabora una proposta sulla misura dell’UE da adottare (diritto d’iniziativa). Ciò avviene sotto la responsabilità del servizio della Commissione competente per il settore economico interessato, il quale si avvale però frequentemente della consulenza di esperti nazionali. La consultazione di tali esperti avviene nel quadro di comitati istituiti allo scopo specifico o sotto forma di una procedura di consultazione ad hoc adottata dai servizi della Commissione. Nell’elaborare la proposta la Commissione non è tuttavia tenuta a conformarsi ai pareri degli esperti nazionali. Il progetto elaborato dalla Commissione, che stabilisce nei particolari il contenuto e la forma della misura da adottare, è discusso dai membri della Commissione e infine approvato a maggioranza semplice. La «proposta della Commissione», corredata da una dettagliata relazione introduttiva, viene quindi presentata contemporaneamente al Parlamento e al Consiglio ed eventualmente, con funzioni consultive, al Comitato economico e sociale e al Comitato europeo delle regioni.

Prima lettura al Parlamento e al Consiglio

Il presidente del Parlamento europeo affida l’elaborazione della proposta alla commissione competente. I risultati delle consultazioni in sede di commissione parlamentare vengono discussi dall’assemblea plenaria ed esposti in un parere, che contiene l’espressa approvazione o il rigetto della proposta, oltre agli eventuali emendamenti proposti. Il Parlamento trasmette la sua posizione al Consiglio.

Il Consiglio può procedere in prima lettura come segue:

  • se il Consiglio approva la posizione del Parlamento, l’atto in questione è adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Parlamento e la procedura legislativa è così conclusa. Nella prassi, il fatto che la procedura legislativa venga già conclusa in prima lettura è ormai diventato la norma. A tal fine è in uso il «trilogo informale», che prevede la presenza di un rappresentante rispettivamente del Parlamento, del Consiglio e della Commissione per raggiungere un compromesso amichevole già in questa prima fase della procedura legislativa. Tali triloghi valgono anche nella maggior parte dei casi; di conseguenza, soltanto le proposte legislative molto controverse passano comunque attraverso la procedura legislativa ordinaria;
  • se il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta la sua posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento.

Il Consiglio informa esaurientemente il Parlamento in merito ai motivi che l’hanno indotto ad adottare la sua posizione. La Commissione illustra nel dettaglio la sua posizione al Parlamento.

Seconda lettura al Parlamento e al Consiglio

Il Parlamento può, in seconda lettura ed entro un termine di tre mesi dalla comunicazione della posizione del Consiglio, agire in tre modi.

  1. Il Parlamento può approvare la posizione del Consiglio o non pronunciarsi in merito: l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio.
  2. Il Parlamento può respingere la posizione del Consiglio a maggioranza dei membri che lo compongono: l’atto proposto si considera non adottato e la procedura legislativa si conclude.
  3. Il Parlamento propone emendamenti alla posizione del Consiglio deliberando a maggioranza dei suoi membri: il testo così emendato è comunicato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti.

Il Consiglio valuta la posizione emendata del Parlamento e, entro tre mesi dalla sua comunicazione, può agire in due modi.

  1. Il Consiglio approva tutti gli emendamenti; in tal caso, l’atto in questione si considera adottato. A tal fine, se la Commissione ha espresso parere favorevole sugli emendamenti del Parlamento, è sufficiente la maggioranza qualificata; in caso contrario il Consiglio può approvare gli emendamenti del Parlamento solo all’unanimità.
  2. Il Consiglio non approva tutti gli emendamenti del Parlamento o non viene raggiunta la maggioranza a tal fine necessaria: viene introdotta la procedura di conciliazione.
Procedura di conciliazione

La procedura di conciliazione viene attivata dal presidente del Consiglio d’intesa con il presidente del Parlamento europeo. A tal fine viene convocato il comitato di conciliazione, che si compone attualmente di 27 rappresentanti del Parlamento e del Consiglio con pari poteri. Il comitato di conciliazione ha il compito di pervenire, a maggioranza qualificata dei suoi membri ed entro un termine di sei settimane dalla convocazione, a un accordo su un progetto comune, basandosi sulle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Si tratta di una soluzione di compromesso che deve essere trovata sulla base di un «esame di tutti gli aspetti del dissenso». Tuttavia è sempre un compromesso tra le due posizioni divergenti del Parlamento e del Consiglio. È inoltre possibile utilizzare nuovi elementi che facilitino il raggiungimento di un compromesso, a condizione che siano idonei al risultato complessivo della seconda lettura. D’altra parte, non è possibile ricorrere a emendamenti che, nella seconda lettura, hanno perso le necessarie maggioranze.

La Commissione partecipa ai lavori del comitato di conciliazione e adotta le iniziative necessarie per favorire il ravvicinamento fra la posizione del Parlamento e quella del Consiglio.

Se, entro un termine di sei settimane dalla convocazione, il comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato.

Terza lettura al Parlamento e al Consiglio

Se, entro il termine di sei settimane, il comitato di conciliazione approva un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono di un ulteriore termine di sei settimane a decorrere da tale approvazione per adottare l’atto in questione in base al succitato progetto; il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi e il Consiglio a maggioranza qualificata. In caso contrario, l’atto in questione si considera non adottato e la procedura legislativa si conclude.

Pubblicazione

L’atto adottato, nella sua versione definitiva, viene elaborato nelle attuali 24 lingue ufficiali dell’UE (bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, neerlandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese), sottoscritto dai presidenti del Parlamento e del Consiglio e, infine, pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

La procedura di codecisione rappresenta per il Parlamento una sfida e, allo stesso tempo, un’opportunità. Un ricorso efficace a tale procedura presuppone infatti un accordo all’interno del comitato di conciliazione; d’altro canto, essa modifica radicalmente il rapporto tra Parlamento e Consiglio. Nell’ambito della procedura legislativa le due istituzioni godono di pari poteri. È compito del Parlamento e del Consiglio dimostrare la propria capacità di raggiungere un compromesso in seno al comitato di conciliazione e cercare di trovare un accordo su una proposta comune.

La procedura legislativa speciale

La procedura legislativa speciale è di norma caratterizzata dal fatto che il Consiglio delibera all’unanimità su proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento (ad esempio, articolo 308 TFUE: statuto della Banca europea per gli investimenti) o che il Parlamento adotta un atto giuridico dopo aver ottenuto l’approvazione del Consiglio (ad esempio, articolo 226, terzo comma, TFUE: esercizio del diritto d’inchiesta da parte della commissione d’inchiesta parlamentare; articolo 228, paragrafo 4, TFUE: condizioni per l’esercizio delle funzioni del mediatore europeo).

Esistono anche altre forme che non corrispondono a questi casi standard, ma possono tuttavia essere attribuite alla procedura legislativa speciale.

  • Decisione sul progetto di bilancio (articolo 314 TFUE): la procedura è regolamentata in modo dettagliato e corrisponde in gran parte alla procedura legislativa ordinaria.
  • Il Consiglio delibera a maggioranza su proposta della Commissione, previa consultazione del Parlamento (e possibilmente anche di altre istituzioni e organi consultivi dell’Unione europea). Questa è la procedura di audizione originale, che inizialmente era la procedura legislativa normale a livello dell’UE, mentre ora viene applicata soltanto in casi puntuali come procedura legislativa speciale (ad esempio, articolo 140, paragrafo 2, TFUE: deroghe nell’ambito dell’Unione economica e monetaria; articolo 128, paragrafo 2, TFUE: emissioni di moneta).
  • Il Consiglio decide senza il coinvolgimento del Parlamento. Si tratta tuttavia di una rara eccezione che, se si esclude l’area della politica estera e di sicurezza comune, in cui il Parlamento è informato delle decisioni del Consiglio (articolo 36 TUE), si applica solo in alcuni casi (ad esempio, articolo 31 TFUE: fissazione della tariffa doganale comune; articolo 301, secondo comma, TFUE: composizione del Comitato economico e sociale europeo).

I settori della politica per cui è prevista una procedura legislativa speciale possono essere trasferiti sotto la procedura legislativa ordinaria attraverso le cosiddette «clausole passerella», oppure l’unanimità del Consiglio può essere sostituita da una maggioranza qualificata. Si devono distinguere due tipi di clausole passerella: 1) la clausola passerella generale, che si applica a tutti i settori della politica e che richiede una decisione unanime del Consiglio europeo; e 2) le clausole passerella specifiche, valide per determinati settori della politica (ad esempio, quadro finanziario pluriennale: articolo 312 TFUE; cooperazione giudiziaria in materia di diritto della famiglia: articolo 81, paragrafo 3, TFUE; cooperazione rafforzata: articolo 333 TFUE; settore sociale: articolo 153 TFUE; ambiente: articolo 192 TFUE). Queste clausole differiscono dalle clausole passerella generali, poiché i parlamenti nazionali di norma non dispongono del diritto di veto e la decisione può essere adottata anche dal Consiglio e non necessariamente dal Consiglio europeo.

Procedura di parere conforme

Un’altra forma di forte coinvolgimento del Parlamento nella procedura legislativa dell’UE è la procedura di parere conforme. In base a tale procedura, un atto può essere adottato solo previa approvazione del Parlamento. Non è previsto però in capo al Parlamento alcun potere d’intervento diretto sul contenuto dell’atto; infatti, nell’ambito della procedura di parere conforme, il Parlamento non può proporre o introdurre emendamenti al testo, ma si limita ad approvare o respingere l’atto che gli viene sottoposto. Questa procedura è intesa ad esempio alla conclusione di accordi internazionali [articolo 218, paragrafo 6, lettera a), TFUE], alla cooperazione rafforzata (articolo 329, paragrafo 1, TFUE) oppure all’esercizio della competenza di completamento dei trattati (articolo 352, paragrafo 1, TFUE). La procedura di parere conforme può essere parte integrante di una procedura legislativa speciale per l’adozione di atti legislativi o parte integrante della semplice procedura legislativa per l’adozione di atti non legislativi vincolanti.

Procedura per l’adozione di atti non legislativi

Gli atti non legislativi sono adottati in una procedura semplificata, in cui un’istituzione o un altro organismo dell’UE adotta un atto giuridico sotto la propria responsabilità. Tale potere deriva dalla rispettiva base di competenze dei trattati dell’UE.

Questa procedura si applica innanzitutto agli atti (semplici) vincolanti adottati da un’istituzione dell’UE sotto la propria responsabilità (ad esempio, articolo 108, paragrafo 2, TFUE: decisione della Commissione in materia di aiuti di Stato).

Con la procedura semplificata vengono poi adottati gli atti non vincolanti, ovvero le raccomandazioni e i pareri delle istituzioni dell’UE e degli organi consultivi.

Procedura per l’adozione degli atti delegati e di esecuzione

La delega di poteri legislativi e di esecuzione alla Commissione da parte del Parlamento e del Consiglio è una prassi comune da molti anni. L’esercizio dei poteri delegati è stato svolto con il coinvolgimento di comitati (comitatologia), in cui l’influenza del Parlamento, del Consiglio, della Commissione e degli Stati membri era strutturata in maniera diversa. Tuttavia non esisteva una chiara separazione tra la delega dei poteri legislativi (potere legislativo) e la delega delle competenze di esecuzione (potere esecutivo). Il trattato di Lisbona ha operato questa distinzione, attesa da tempo, per l’esercizio delle funzioni legislative ed esecutive nel diritto primario (articoli 290 e 291 TFUE).

L’adozione di atti delegati viene eseguita dalla Commissione sulla base di un’autorizzazione speciale, rilasciata attraverso un atto legislativo adottato dal Parlamento e dal Consiglio (articolo 290 TFUE). L’oggetto della delega può essere soltanto la modifica di alcune disposizioni non essenziali di un atto legislativo; gli aspetti essenziali di un settore sono esclusi da una delega di competenza. Ciò significa che le norme fondamentali devono essere adottate dal potere legislativo stesso e non essere delegate all’esecutivo. Questo tiene conto del principio della democrazia e della divisione dei poteri. Il Parlamento e il Consiglio devono sempre ottemperare direttamente alla loro responsabilità primaria relativa alla legislazione quando si tratta di decisioni politicamente importanti di notevole portata. Ciò vale in particolare per gli obiettivi politici dell’attività legislativa, per la selezione degli strumenti per il raggiungimento degli obiettivi e per l’eventuale portata delle disposizioni per le persone fisiche e giuridiche. Inoltre gli atti delegati possono soltanto modificare o integrare un atto legislativo, ovvero non possono interferire con il suo obiettivo. Infine, nell’atto legislativo occorre definire univocamente le disposizioni da emendare o integrare mediante l’atto delegato. Pertanto per gli atti delegati vengono presi in considerazione gli adattamenti giuridici a sviluppi futuri quali, ad esempio, modifiche dello stato dell’arte, adeguamenti a modifiche prevedibili di altre disposizioni giuridiche o la garanzia di applicazione delle disposizioni dell’atto legislativo anche in caso di circostanze particolari o scoperte più recenti. La delega dei poteri può essere limitata nel tempo o, se non sono previsti limiti, può essere soggetta a revoca. Oltre alla possibilità di revocare la delega, il Parlamento e il Consiglio possono anche prevedere una possibilità di veto all’entrata in vigore degli atti delegati della Commissione. Se il Parlamento e il Consiglio hanno delegato il potere legislativo alla Commissione, quest’ultima può adottare i corrispondenti atti di esecuzione. L’inclusione di altre istituzioni non è richiesta dal diritto primario. Tuttavia la Commissione detiene la facoltà di consultare gli esperti nazionali in materia, una prassi regolarmente applicata.

L’adozione di atti di esecuzione da parte della Commissione (articolo 291 TFUE) è concepita come eccezione al principio della competenza degli Stati membri per l’attuazione amministrativa del diritto dell’UE (articolo 197 TFUE) ed è quindi sotto il controllo degli Stati membri. Si tratta di una considerevole differenza rispetto alla situazione giuridica anteriore, secondo la quale il Parlamento e il Consiglio nella procedura di comitato si avvalgono dei diritti di partecipazione nell’adozione delle misure di esecuzione. Questa modifica è dovuta al fatto che la chiara separazione degli atti delegati e degli atti di esecuzione richiedeva anche una corrispondente riattribuzione dei diritti di controllo e di partecipazione: mentre il Parlamento e il Consiglio hanno accesso agli atti delegati in qualità di legislatori dell’UE, per gli atti di esecuzione sono gli Stati membri, conformemente alla loro originaria competenza, ad essere responsabili dell’esecuzione amministrativa del diritto dell’UE. Il legislatore dell’UE (ossia il Parlamento e il Consiglio) ha definito regole e principi generali per l’esercizio del controllo di esecuzione nel regolamento (UE) n. 182/2011 (cosiddetto «regolamento comitatologia») conformemente al suo mandato legislativo Il regolamento comitatologia riduce a due il numero di procedure di comitato: la procedura consultiva e la procedura d’esame, con requisiti concreti per la selezione delle procedure.

Nella procedura consultiva un comitato consultivo adotta a maggioranza semplice pareri che vengono verbalizzati. La Commissione dovrebbe tenerne possibilmente conto, ma questo non rappresenta un obbligo.

Nella procedura d’esame, su proposta della Commissione, si vota a maggioranza qualificata per le misure d’esecuzione nel comitato di comitatologia, composto da rappresentanti degli Stati membri. In caso di approvazione, la Commissione deve adottare le misure così come sono state presentate. Se non viene presa alcuna decisione a causa del mancato raggiungimento del quorum, la Commissione può adottare in linea di principio la propria proposta. In caso di parere negativo del comitato o di mancata approvazione, la Commissione può presentare una nuova proposta al comitato d’esame o incaricare un comitato di appello di esaminare la proposta originale.

Il comitato di appello rappresenta la seconda istanza nella procedura d’esame. La consultazione del comitato di appello deve servire al raggiungimento di un compromesso tra la Commissione e i rappresentanti degli Stati membri, nel caso in cui non si sia giunti ad alcun risultato nel comitato d’esame. Se il comitato di appello formula un parere positivo, la Commissione adotta l’atto di esecuzione. Può farlo anche se il comitato di appello non fornisce alcun parere.

Il sistema di tutela giuridica dell’Unione europea

Un’Unione che si presenti come comunità del diritto deve mettere a disposizione dei soggetti che la compongono un sistema completo ed efficace di tutela giuridica. Il sistema di protezione dell’UE risponde a quest’esigenza. Esso garantisce ai singoli un’effettiva tutela giurisdizionale dei diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico dell’UE. Questa tutela, codificata all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, rientra tra i principi generali tratti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alla CEDU (articoli 6 e 13). È garantita dagli organi giurisdizionali dell’UE (la Corte di giustizia e il Tribunale, articolo 19, paragrafo 1, TUE). Di seguito sono analizzate le tipologie di procedimento previste.

Procedura di infrazione (articolo 258 TFUE)

Questo procedimento è diretto a stabilire se uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del diritto dell’UE. La competenza esclusiva spetta alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Data la gravità dell’addebito, il ricorso alla Corte di giustizia deve essere preceduto da una procedura preliminare che consenta allo Stato membro interessato di rispondere alle censure che gli vengono mosse. Se tale procedura non porta a un chiarimento delle controversie, la Commissione (articolo 258 TFUE) o uno Stato membro (articolo 259 TFUE) possono adire la Corte di giustizia per inadempimento degli obblighi incombenti in virtù dei trattati. Nella pratica, generalmente l’iniziativa viene assunta dalla Commissione. La Corte di giustizia esamina i fatti e verifica se sussista una violazione di un trattato. In caso affermativo, lo Stato membro ha l’obbligo di porre immediatamente rimedio alla violazione constatata. Se non si conforma alla sentenza della Corte, la Commissione può imporre con una seconda sentenza, emessa nei confronti dello Stato che abbia mancato ai suoi obblighi e che non si sia conformato alla prima sentenza di condanna della Corte, il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità (articolo 260 TFUE). Il protratto mancato adeguamento a una pronuncia della Corte con cui sia stato accertato un inadempimento ha pertanto gravi ripercussioni finanziarie per lo Stato che ha violato i trattati.

Ricorso di annullamento (articolo 263 TFUE)

Il ricorso di annullamento permette di sottoporre a controllo giurisdizionale la condotta delle istituzioni dell’UE (sindacato di legittimità astratto) e, seppure con determinati limiti, garantisce al singolo l’accesso alla giurisdizione dell’UE (garanzia della tutela giuridica individuale).

Possono essere oggetto di ricorso di annullamento tutte le misure delle istituzioni dell’UE che abbiano efficacia giuridica vincolante e che ledano gli interessi del ricorrente, incidendo sulla sua posizione giuridica. Possono proporre ricorso, oltre agli Stati membri, al Parlamento, al Consiglio dell’UE e alla Commissione, la Corte dei conti europea, la BCE e il Comitato europeo delle regioni, qualora venga pregiudicato un loro diritto.

Le imprese e i cittadini dell’UE possono invece proporre ricorso di annullamento solo contro decisioni prese nei loro confronti o contro decisioni che, pur essendo indirizzate ad altre persone, li riguardino direttamente e individualmente. Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, è questo il caso in cui una persona è individualizzata al punto da distinguersi da tutti gli altri attori economici. Il criterio del legame «diretto» deve servire a garantire che vengano presentati alla Corte di giustizia o al Tribunale solo ricorsi in cui risultino chiaramente sia il pregiudizio per la situazione giuridica del ricorrente, sia la natura di tale pregiudizio. Il criterio della «individualità» consente inoltre di escludere la cosiddetta «actio popularis».

Il trattato di Lisbona ha inoltre introdotto un’ulteriore categoria di atti contro i quali può essere proposto un ricorso di annullamento direttamente da persone fisiche e giuridiche. Sussiste pertanto un diritto di azione per persone fisiche e giuridiche anche rispetto agli «atti regolamentari», in quanto tali atti riguardano direttamente il ricorrente e «non comportano alcuna misura d’esecuzione». Con questa nuova categoria è stata colmata una «lacuna nella tutela giuridica» già indicata dal Tribunale nella causa Jégo-Quéré, in quanto in precedenza la tutela giurisdizionale non era garantita nei casi in cui un operatore economico era direttamente interessato da un atto giuridico dell’UE, la cui legittimità non poteva essere controllata con i rimedi giurisdizionali a disposizione. La contestazione nel quadro del ricorso di annullamento (articolo 263 TFUE) è fallita a causa della mancanza di pregiudizio individuale; il procedimento di pronuncia pregiudiziale (articolo 267 TFUE) non poteva essere applicato a causa della mancanza di una misura nazionale di esecuzione (ad eccezione di un eventuale procedimento penale per inadempimento degli obblighi del diritto dell’UE da parte dell’operatore economico, che deve tuttavia essere ignorato poiché l’operatore economico non può verificare la legittimità di un illecito); il ricorso per risarcimento non poteva infine portare a una soluzione soddisfacente per gli interessi del cittadino, poiché non poteva rimuovere un atto illecito dall’ordinamento giuridico dell’UE.

Il fatto che, in virtù dell’articolo 263, quarto comma, TFUE, viene meno per gli atti regolamentari l’obbligo di «riguardare individualmente la persona» e si richiede invece solo che tali atti riguardino direttamente la persona e non siano in atto misure nazionali di esecuzione, colma una parte di questa lacuna.

Tuttavia, ciò che si intende per «atti regolamentari» risulta problematico. Da una parte, con un’interpretazione restrittiva, si intendono soltanto gli atti di portata generale che non sono atti legislativi; dall’altra parte, un’interpretazione estensiva può al contrario lasciar intendere tutti gli atti di portata generale, compresi gli atti legislativi. Nella sentenza relativa alla causa Inuit Tapiriit Kanatami, il Tribunale ha affrontato in dettaglio i due approcci e, sulla base di un’interpretazione grammaticale, storica e teleologica, ha concluso che soltanto gli atti di portata generale che non sono atti legislativi possono essere riconosciuti come «atti regolamentari». Questi quindi includono, oltre agli atti delegati (cfr. articolo 290 TFUE) e agli atti di esecuzione (cfr. articolo 291 TFUE), anche le direttive, purché siano direttamente applicabili secondo la giurisprudenza, e le decisioni astratte e generali, purché non siano state adottate nella procedura legislativa. Il Tribunale si basa quindi univocamente su una ristretta interpretazione del carattere regolamentare. Nella sentenza di secondo grado del 2013 la Corte ha confermato tale conclusione. Dal punto di vista della garanzia di una tutela giuridica efficace questo è deplorevole poiché, con l’approccio restrittivo, la lacuna di tutela giuridica rilevata può essere colmata solo parzialmente.

Pescatori che indossano indumenti professionali si occupano di una rete da pesca su un peschereccio in un porticciolo per pescherecci, circondati da numerose imbarcazioni.

Nella causa Jégo-Quéré, una società di pesca ha chiesto di annullare parti di un regolamento relativo alla protezione del novellame di nasello. In concreto, si trattava del divieto delle reti da pesca con larghezza delle maglie di 8 cm, come quelle utilizzate da Jégo-Quéré. Per garantire un’effettiva tutela giurisdizionale, il Tribunale ha interpretato in modo ampio la nozione di persona individualmente interessata e ha confermato la ricevibilità del ricorso. La Corte di giustizia non è stata dello stesso parere, e ha concluso che l’incidenza diretta di un regolamento di portata generale non può essere equiparata a un pregiudizio individuale.

Ora è quindi anche possibile esaminare la legittimità degli atti delle istituzioni e degli organismi dell’UE, in particolare delle numerose agenzie coinvolte (articolo 263, quinto comma, TFUE). In questo modo si elimina una lacuna di tutela giuridica finora scarsamente colmata dalla giurisprudenza, e anche nel diritto primario si è tenuto conto del fatto che tali istituzioni sono state in parte dotate di poteri che consentono loro di intraprendere atti destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi, cosicché anche contro questi atti si deve aprire un procedimento nell’interesse di un sistema di tutela giuridica senza lacune.

Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia o il Tribunale dichiarano la nullità dell’atto impugnato con effetto retroattivo. In determinati casi, la Corte o il Tribunale possono limitare l’efficacia della dichiarazione di nullità dal momento della pronuncia della sentenza. Al fine di tutelare i diritti e gli interessi dei ricorrenti, questi ultimi sono tuttavia esclusi dalla limitazione degli effetti di una sentenza di nullità.

Ricorso per carenza (articolo 265 TFUE)

Tale ricorso completa gli strumenti di tutela giuridica nei confronti del Parlamento, del Consiglio europeo, del Consiglio, della Commissione e della BCE. Prima di presentare il ricorso occorre tuttavia avviare una procedura preliminare, nell’ambito della quale la parte ricorrente sollecita l’istituzione dell’UE in questione ad agire. Il ricorso, presentato da istituzioni, mira a far dichiarare che un’istituzione dell’UE ha omesso, in violazione del trattato, di adottare un atto giuridico. Per i cittadini e le imprese dell’UE il ricorso per carenza si limita a chiedere di dichiarare che un’istituzione dell’UE, in violazione delle disposizioni del trattato, ha omesso di emanare nei loro confronti un atto giuridico, vale a dire, una decisione a loro indirizzata. Con la sentenza definitiva viene constatata soltanto l’illegittimità dell’omissione riguardo a un determinato atto. La Corte di giustizia e il Tribunale non hanno tuttavia il potere di imporre l’obbligo di adottare la misura richiesta. La parte soccombente è tenuta soltanto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta (articolo 266 TFUE).

Ricorso per risarcimento (articolo 268 e articolo 340, secondo comma, TFUE)

Con tale ricorso i cittadini e le imprese, oltre che gli Stati membri, possono chiedere di fronte alla Corte di giustizia il risarcimento per un pregiudizio arrecato loro in conseguenza di un errore commesso da agenti dell’UE. I presupposti della responsabilità dell’UE sono disciplinati solo parzialmente nei trattati, pertanto occorre fare riferimento, per il resto, ai principi generali del diritto, comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Secondo la giurisprudenza della Corte, l’obbligo di risarcimento in capo all’UE è subordinato alle condizioni seguenti:

  1. azione illecita di un’istituzione dell’UE o di un agente dell’UE nell’esercizio delle sue funzioni. Si configura un’azione illecita in presenza di una violazione qualificata di una norma dell’UE che riconosca un diritto o tuteli un singolo, un’impresa o uno Stato membro. La natura di «norma di tutela» è riconosciuta, in particolare, ai diritti e alle libertà fondamentali relativi al mercato interno o ai principi di affidamento e di proporzionalità, ma anche a qualsiasi altra norma giuridica direttamente applicabile che conferisce diritti soggettivi al cittadino dell’UE. Una violazione sufficientemente qualificata sussiste qualora un’istituzione dell’UE abbia agito in un modo tale da eccedere manifestamente e in misura rilevante i suoi poteri. La Corte di giustizia si basa in particolare sul numero limitato di persone interessate dalla misura illegittima e sulla portata del pregiudizio subito, che deve superare i limiti dei rischi economici normali per il settore economico di riferimento;
  2. sussistenza del danno;
  3. esistenza di un nesso di causalità tra il danno subito e l’azione dell’UE;
  4. l’azione per risarcimento non presuppone una colpa da parte dell’istituzione dell’UE.

Controversie tra l’Unione e i suoi agenti (articolo 270 TFUE)

Anche le controversie insorte tra l’UE e i suoi agenti o i loro eredi rientrano nella competenza della Corte di giustizia dell’UE. Competente a decidere di tali controversie è il Tribunale.

Procedimento di impugnazione (articolo 256 TFUE)

I rapporti tra Corte di giustizia e Tribunale sono strutturati in modo tale da permettere l’impugnazione, per motivi di diritto, di tutte le decisioni del Tribunale dinanzi alla Corte di giustizia. Tra i motivi d’impugnazione rientrano l’incompetenza del Tribunale, i vizi procedurali che abbiano leso gli interessi della parte ricorrente, nonché la violazione del diritto dell’UE da parte del Tribunale. Qualora l’impugnazione risulti ricevibile e fondata, la Corte di giustizia annulla la decisione del Tribunale. Se dispone di sufficienti elementi per decidere, la Corte di giustizia statuisce; in caso contrario rimette la causa al Tribunale, che dovrà pronunciarsi nuovamente nel rispetto delle valutazioni giuridiche della Corte di giustizia.

Tutela giuridica provvisoria (articolo 278 e articolo 279 TFUE)

I ricorsi proposti alla Corte di giustizia o al Tribunale, nonché quelli presentati nei confronti delle decisioni da essi adottate, non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, per compensare tale carenza, la Corte di giustizia o il Tribunale possono, su richiesta, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (articolo 278 TFUE) o ordinare i provvedimenti provvisori necessari (articolo 279 TFUE).

Nella prassi giuridica la fondatezza della domanda di provvedimenti provvisori è determinata alla luce dei seguenti tre criteri.

  1. Prospettive di successo della questione di merito (fumus boni juris). Nell’ambito di una valutazione sommaria preliminare vengono valutati i margini di probabilità che le argomentazioni addotte dal ricorrente siano accolte.
  2. Urgenza del provvedimento. Va valutata in funzione del danno grave e irreparabile che il provvedimento auspicato potrebbe evitare al ricorrente. I criteri applicati sono, in questo caso, la natura e il grado di gravità dell’infrazione commessa, nonché il pregiudizio concreto e definitivo a danno del patrimonio del ricorrente o di altri suoi beni soggetti a protezione giuridica. Un danno economico viene considerato grave e irreparabile solo qualora non sia possibile un risarcimento integrale in caso di accoglimento del ricorso nella causa.
  3. Ponderazione degli interessi. Occorre valutare il potenziale danno a carico del ricorrente in caso di mancata adozione di una misura provvisoria, comparandolo con l’interesse dell’UE a dare immediata attuazione alla misura e con gli svantaggi derivanti a terzi dalla sua eventuale adozione.

Procedimento di pronuncia pregiudiziale (articolo 267 TFUE)

I tribunali nazionali possono adire la Corte di giustizia tramite il procedimento di pronuncia pregiudiziale. Quando, nell’ambito di una controversia pendente presso una giurisdizione nazionale, quest’ultima deve applicare disposizioni di diritto dell’UE, essa può sospendere tale procedura e sottoporre alla Corte di giustizia una questione concernente la validità di un atto giuridico emanato dalle istituzioni dell’UE e/o l’interpretazione di tale atto e dei trattati dell’UE. Il giudice nazionale formula in proposito una questione di diritto, che la Corte di giustizia risolve mediante sentenza e non con un semplice parere, esprimendo così, anche tramite la forma, il carattere vincolante della sua decisione. Tuttavia la pronuncia pregiudiziale non è, come gli altri procedimenti menzionati, un procedimento contenzioso diretto a comporre una controversia, bensì rappresenta solo un elemento all’interno di un procedimento più ampio che inizia e finisce presso un tribunale nazionale.

L’obiettivo di tale procedimento consiste nell’assicurare un’interpretazione uniforme del diritto dell’UE e, in tal modo, l’uniformità dell’ordinamento giuridico dell’UE. Oltre a quest’ultima funzione di garanzia dell’unità del diritto nell’UE, tale procedimento riveste anche un ruolo nella protezione dei diritti individuali. Affinché i tribunali nazionali possano avvalersi della possibilità concessa loro di esaminare la conformità della legislazione nazionale con la legislazione dell’UE e, in caso di incompatibilità, di applicare la legislazione dell’UE che, in quanto preminente, è direttamente applicabile, è necessario che contenuto e portata delle disposizioni dell’UE siano definiti chiaramente. Di norma, solo un procedimento di pronuncia pregiudiziale può garantire una simile chiarezza. In tal modo, è consentito anche al cittadino dell’UE di opporsi ad azioni del suo paese contrarie alla legislazione dell’UE e di ottenere l’applicazione della legislazione dell’UE di fronte al tribunale nazionale. Questa doppia funzione del procedimento di pronuncia pregiudiziale compensa, in un certo senso, le scarse possibilità offerte al singolo cittadino di adire direttamente la Corte di giustizia e riveste pertanto un’importanza fondamentale ai fini della tutela giuridica individuale. Tuttavia il successo di tale procedimento dipende dalla «disponibilità» dei giudici e tribunali nazionali a investire della controversia la Corte di giustizia.

Oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale: la Corte di giustizia decide in merito all’interpretazione del diritto dell’UE e controlla la legittimità degli atti giuridici delle istituzioni dell’UE. Le disposizioni di diritto nazionale non possono invece costituire oggetto di pronuncia pregiudiziale. Nel quadro del procedimento di pronuncia pregiudiziale, la Corte di giustizia non è autorizzata a interpretare il diritto nazionale, né a decidere in merito alla sua conformità al diritto dell’UE, aspetto questo spesso trascurato nelle questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di giustizia. Numerose sono le questioni incentrate sulla compatibilità di una norma nazionale con una disposizione dell’UE o sull’applicabilità di una specifica disposizione dell’UE a un procedimento pendente dinanzi a un tribunale nazionale. La Corte di giustizia non si limita però a rinviare tali questioni, di per sé irricevibili, alle giurisdizioni nazionali; esse vengono interpretate piuttosto come una richiesta del giudice del rinvio volta a individuare i criteri fondamentali o essenziali d’interpretazione delle disposizioni dell’UE in parola al fine di poter, esso stesso, valutare la compatibilità tra la legislazione nazionale e quella dell’UE. A tal fine la Corte di giustizia trae, ricavandoli dall’insieme degli atti presentati dal giudice nazionale e, in particolare, dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio, gli elementi del diritto dell’UE che necessitano di un’interpretazione, tenendo conto dell’oggetto della controversia.

Legittimazione a sottoporre il rinvio pregiudiziale: sono legittimate a sottoporre il rinvio pregiudiziale tutte le «autorità giudiziarie degli Stati membri». Tale nozione va interpretata nel senso attribuitole nell’ambito della legislazione dell’UE, con riferimento non alla denominazione, bensì alla funzione e alla posizione di un’istanza giudiziaria nel sistema di tutela giuridica dello Stato membro. Per «autorità giudiziarie» si intendono pertanto tutte le istituzioni indipendenti, vale a dire non sottoposte a vincoli nei confronti di terzi che, all’interno di uno Stato di diritto, sono competenti a decidere delle controversie con efficacia di sentenza definitiva. Domande di pronuncia pregiudiziale possono così essere presentate dalle Corti costituzionali degli Stati membri, nonché dalle istanze responsabili della composizione delle controversie che non rientrano nel sistema giudiziario statale, ad eccezione delle giurisdizioni di arbitrato private. Il giudice nazionale decide se avvalersi del suo diritto d’introdurre una questione pregiudiziale sulla base della rilevanza della questione di diritto dell’UE ai fini della sua decisione nella causa principale; tale decisione è rimessa al giudice nazionale, mentre le parti della controversia possono unicamente proporre le loro conclusioni. La Corte di giustizia esamina la rilevanza della questione ai fini della decisione finale solo per valutarne l’ammissibilità (verifica quindi che si tratti di una questione pertinente all’interpretazione dei trattati dell’UE o alla validità di un atto di un’istituzione dell’UE) o qualora sussista un autentico problema giuridico (vale a dire se le questioni su cui è chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale siano meramente ipotetiche o riguardino un elemento di diritto già regolamentato). È raro che la Corte si rifiuti di esaminare una domanda di pronuncia pregiudiziale sulla base di questi motivi poiché, vista l’importanza particolare riconosciuta alla cooperazione con le autorità giudiziarie, nell’applicare i criteri menzionati la Corte si muove con una certa prudenza. Tuttavia la recente giurisprudenza della Corte rivela una maggiore severità nel valutare la sussistenza dei requisiti di ammissibilità di questo tipo di ricorsi, applicando alla lettera l’esigenza, già menzionata in precedenza, di una descrizione sufficientemente chiara e dettagliata degli elementi di fatto e di diritto della causa principale all’interno della domanda di pronuncia pregiudiziale. In mancanza di tali dati, essa dichiara il ricorso irricevibile, sostenendo di non essere in grado di fornire un’interpretazione adeguata della legislazione dell’UE.

Obbligo del rinvio pregiudiziale: è tenuto a proporre domanda di pronuncia pregiudiziale ogni giudice nazionale contro le cui decisioni non possa più essere esperito alcun mezzo di ricorso previsto dal diritto nazionale. Per mezzo di ricorso si intende ogni mezzo che consenta a un’istanza superiore di controllare gli elementi di fatto o di diritto (ricorso in appello) o soltanto di diritto (ricorso per cassazione) di una pronuncia emessa da un tribunale. Tale nozione non include, invece, i ricorsi ordinari con effetti limitati o specifici (revisione, ricorso costituzionale). Il giudice può sottrarsi all’obbligo del rinvio solo qualora la questione pregiudiziale sia ininfluente ai fini dell’esito del contenzioso, se la Corte di giustizia si è già pronunciata in merito o se non possono sussistere ragionevoli dubbi sull’interpretazione di una disposizione del diritto dell’UE. Se un giudice nazionale intende invece invocare l’invalidità di un atto dell’UE, ha l’obbligo assoluto di introdurre una domanda di pronuncia pregiudiziale. A tale proposito la Corte di giustizia ha chiaramente stabilito che essa sola è autorizzata a dichiarare l’invalidità degli atti normativi dell’UE. Di conseguenza, i tribunali nazionali devono applicare e rispettare le disposizioni dell’UE fino a quando la Corte di giustizia non ne abbia accertato l’invalidità. Costituiscono un’eccezione i tribunali chiamati a emettere provvedimenti d’urgenza. Secondo la giurisprudenza più recente della Corte di giustizia, tali organi giudiziari possono, a determinate condizioni, sospendere l’attuazione di atti amministrativi nazionali basati su un regolamento dell’UE o adottare misure provvisorie che incidono temporaneamente su posizioni o situazioni giuridiche controverse, senza tenere conto di una vigente disposizione giuridica dell’UE.

La violazione dell’obbligo di introdurre una domanda di pronuncia pregiudiziale implica, allo stesso tempo, una violazione dei trattati dell’UE e può comportare l’avvio di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato membro interessato, che può essere sanzionato. Le conseguenze pratiche di una tale azione sono tuttavia molto limitate, in quanto il governo dello Stato membro interessato non potrebbe ottemperare a un eventuale giudizio della Corte di giustizia, dal momento che non può impartire istruzioni ai tribunali nazionali, considerata l’indipendenza del potere giudiziario e il principio della separazione dei poteri. Da quando è stato riconosciuto il principio della responsabilità di diritto dell’UE degli Stati membri in caso di violazione del diritto dell’Unione (al riguardo, cfr. il capitolo «Responsabilità dello Stato membro in caso di violazioni del diritto dell’UE») esistono tuttavia maggiori possibilità di esito positivo per il singolo, che ha titolo di introdurre un ricorso per ottenere il risarcimento dei danni potenzialmente derivanti dal mancato rispetto, da parte dello Stato membro, del suo obbligo di introdurre la domanda di pronuncia pregiudiziale.

Effetti della pronuncia pregiudiziale: la pronuncia pregiudiziale, sotto forma di sentenza, vincola sia il giudice che ha proposto il rinvio, sia gli altri giudici interessati dalla controversia. Spesso inoltre una pronuncia pregiudiziale ha, nella pratica, l’effetto di un precedente per altri procedimenti simili.

La responsabilità dello Stato membro in caso di violazioni del diritto dell’UE

Il principio della responsabilità degli Stati membri per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’UE è stato riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza del 5 marzo 1996, pronunciata nelle cause riunite C-46/93 Brasserie du pêcheur e C-48/93 Factortame. Tale sentenza di riconoscimento della responsabilità è una sentenza di principio che si pone quale seguito naturale delle precedenti pronunce della Corte sul primato del diritto dell’UE, sull’applicabilità diretta delle sue disposizioni e sul riconoscimento dei diritti fondamentali propri dell’UE. Come affermato dalla Corte stessa, il diritto al risarcimento costituisce il «corollario necessario dell’effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie la cui violazione ha dato origine al danno subito» e rafforza considerevolmente le possibilità offerte agli individui di costringere le autorità statali (esecutive, legislative e giudiziarie) a rispettare e ad applicare la legislazione dell’UE. La Corte ha così sviluppato ulteriormente la giurisprudenza già avviata nella sentenza nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90 Francovich e Bonifaci. Mentre all’epoca la responsabilità degli Stati membri si limitava ai casi in cui l’interessato avesse subito dei danni a causa dell’attuazione tardiva di una direttiva che gli conferiva diritti soggettivi, ma che era priva di effetto diretto, tale sentenza ha stabilito il principio della responsabilità generale, che contempla ogni violazione del diritto dell’UE imputabile allo Stato membro.

La responsabilità dello Stato membro per le violazioni del diritto dell’UE viene riconosciuta qualora ricorrano tre condizioni, che corrispondono sostanzialmente a quelle applicabili all’UE in una situazione analoga, vale a dire:

  1. la norma di diritto dell’UE che è stata violata deve essere finalizzata al conferimento di diritti al singolo individuo;
  2. la violazione deve essere sufficientemente caratterizzata, ovvero lo Stato deve aver travalicato in modo manifesto e grave i limiti che si impongono al suo potere discrezionale. Tale giudizio spetta ai tribunali nazionali, i soli competenti a stabilire i fatti e a qualificare le violazioni del diritto dell’UE in questione. Nella sua sentenza Brasserie du pêcheur la Corte di giustizia offre però alcune indicazioni fondamentali agli Stati membri, dichiarando quanto segue:
    Al riguardo, fra gli elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in considerazione, figurano il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma consente alle autorità nazionali o [dell’Unione], il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione [dell’Unione] abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto [dell’Unione]. Comunque sia, una violazione del diritto [dell’Unione] è grave e manifesta quando sia perdurata nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’illegittimità del comportamento in questione»;
  3. deve sussistere un nesso di causalità diretta tra la violazione dell’obbligo che incombe sullo Stato e il danno subito dalle persone lese. In presenza di una violazione sufficientemente caratterizzata del diritto dell’UE, non occorre che la condotta sia dolosa o colposa.

La Corte di giustizia ha chiaramente stabilito che i principi di responsabilità si applicano anche al terzo potere, vale a dire al potere giudiziario. Le sue sentenze non sono soltanto suscettibili di riesame da parte delle differenti istanze di appello; qualora siano state rese disconoscendo o violando le norme dell’UE, diventano anche oggetto di un’azione a fini di risarcimento intentata presso i tribunali competenti degli Stati membri. Nell’ambito di tale procedimento, nel verificare la violazione del diritto dell’UE da parte della sentenza impugnata vanno riesaminate anche le questioni di merito, pertinenti al diritto dell’UE senza che il tribunale competente possa invocare eventuali effetti vincolanti della sentenza specifica. Competente a conoscere delle questioni attinenti all’interpretazione o alla validità delle disposizioni dell’UE o della compatibilità con il diritto dell’UE delle discipline nazionali in materia di responsabilità che siano state sollevate dalle competenti giurisdizioni nazionali è, anche in questo caso, la Corte di giustizia, nel quadro di un procedimento di pronuncia pregiudiziale (articolo 267 TFUE). Il riconoscimento di una responsabilità per violazioni da parte del potere giudiziario rimarrà comunque un’ipotesi eccezionale. In considerazione delle condizioni restrittive previste, una responsabilità potrà essere ravvisata solo qualora un giudice arbitrariamente ometta di applicare il diritto dell’UE oppure quando, come nella causa C-224/01 Köbler, un giudice all’ultimo grado di giudizio emetta, in violazione del diritto dell’UE, una sentenza pregiudizievole per un cittadino senza prima adire la Corte di giustizia in modo da chiarire aspetti del diritto dell’UE rilevanti ai fini della decisione. In quest’ultimo caso, la tutela dei diritti di un cittadino dell’UE che invoca il diritto dell’UE impone che i danni cagionati da una sentenza all’ultimo grado di giudizio gli vengano risarciti.

LA COLLOCAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA NELL’AMBITO DEL SISTEMA GENERALE DEL DIRITTO

Dopo quanto è stato detto sull’organizzazione dell’UE e sul suo ordinamento giuridico, non è facile inquadrare il diritto dell’UE nel sistema giuridico complessivo e tracciarne i limiti rispetto agli altri ordinamenti. Si devono, tuttavia, escludere a priori due tentativi di classificazione: non si può concepire il diritto dell’UE come un semplice coacervo di accordi fra Stati, né come parte o appendice dei sistemi giuridici nazionali.

L’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea

Gli Stati membri, con l’istituzione dell’UE, hanno limitato la propria potestà legislativa, creando un ordinamento giuridico autonomo vincolante sia per i loro cittadini, sia per loro stessi, che deve essere applicato dai rispettivi organi giurisdizionali.

Su tali principi la Corte di giustizia basò la sua sentenza nella celebre causa 6/64 Costa/ENEL del 1964, alla quale abbiamo già fatto riferimento. Il signor Costa si era opposto alla nazionalizzazione della produzione e distribuzione dell’energia elettrica in Italia e al conseguente trasferimento del patrimonio delle imprese elettriche alla società ENEL.

L’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’UE è di fondamentale importanza per l’UE, in quanto impedisce che il diritto da essa elaborato sia scalzato dal diritto nazionale e ne garantisce l’applicazione uniforme in tutti gli Stati membri. In virtù di tale autonomia, le nozioni di diritto dell’UE sono quindi sempre definite fondamentalmente in funzione delle necessità di tale diritto e degli obiettivi dell’UE. Tale definizione a livello di Unione è indispensabile, in quanto i diritti garantiti dall’ordinamento giuridico dell’UE sarebbero compromessi se ogni Stato membro, in ultima analisi, potesse determinare autonomamente il campo d’applicazione delle libertà garantite dall’UE, definendone concettualmente i contenuti. Prendiamo, ad esempio, la nozione di «lavoratore», che è determinante per la portata del diritto alla libera circolazione. Nella sua definizione ai fini del diritto dell’UE, la nozione di lavoratore può essere notevolmente diversa da quella conosciuta e applicata nei sistemi nazionali. Inoltre gli atti giuridici dell’UE sono valutati esclusivamente sulla base del diritto dell’UE e non del diritto nazionale o costituzionale.

Alla luce di tale autonomia dell’ordinamento giuridico dell’UE, come si possono dunque descrivere i rapporti tra il diritto dell’UE e il diritto nazionale?

Anche se il diritto dell’UE costituisce un ordinamento giuridico autonomo nei confronti degli ordinamenti nazionali, non bisogna peraltro credere che l’uno e gli altri si sovrappongano come strati della crosta terrestre. Una suddivisione così rigida è in contraddizione con il fatto che essi si rivolgono, in realtà, alle stesse persone, che sono contemporaneamente cittadini di uno Stato e cittadini dell’UE; d’altro canto, si deve osservare che il diritto dell’UE prende corpo solo se è recepito negli ordinamenti giuridici degli Stati membri. In realtà, gli ordinamenti giuridici dell’UE e nazionali sono concatenati e interdipendenti.

L’interazione tra diritto dell’Unione europea e diritto nazionale

Questo aspetto della relazione tra diritto dell’UE e diritto nazionale riguarda gli ambiti nei quali il diritto dell’UE e il diritto nazionale si integrano a vicenda. L’articolo 4, paragrafo 3, TUE illustra molto chiaramente tale relazione, puntualizza che:

«In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati.

Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione.

Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione».

Il principio generale di leale cooperazione è stato formulato nella consapevolezza che l’ordinamento giuridico dell’UE non è in grado, da solo, di realizzare gli obiettivi prefissati della costruzione dell’UE. Diversamente dagli ordinamenti giuridici nazionali, l’ordinamento dell’UE non costituisce un sistema chiuso ma necessita, per realizzarsi, del sostegno degli ordinamenti nazionali. Tutti i poteri statali — legislativo, esecutivo e giudiziario — devono pertanto riconoscere che l’ordinamento giuridico dell’UE non è qualcosa di «estraneo», ma che gli Stati membri e le istituzioni dell’UE costituiscono un insieme indissociabile e solidale per realizzare gli obiettivi comuni. L’UE non è quindi solo una comunità di interessi, ma anche e soprattutto una comunità solidale. Ne consegue che le autorità degli Stati membri devono, oltre a rispettare i trattati dell’UE e le disposizioni giuridiche adottate dalle istituzioni dell’UE per la loro realizzazione, anche applicarli e renderli vitali. Tale interazione del diritto dell’UE e del diritto nazionale è così multiforme che potrà essere illustrata solo sulla base di alcuni importanti esempi.

Il meccanismo della direttiva, che già abbiamo illustrato nel contesto degli atti normativi, riflette meglio di ogni altro la stretta relazione e la complementarità che caratterizzano l’ordinamento giuridico dell’UE e gli ordinamenti giuridici nazionali. Mentre la direttiva impone solo il risultato agli Stati membri, la scelta della forma e dei mezzi con cui raggiungere tale obiettivo è lasciata alla competenza delle autorità statali, vale a dire al diritto nazionale. In campo giurisdizionale, è il procedimento pregiudiziale di cui all’articolo 267 TFUE che stabilisce legami. Nell’ambito di tale procedimento, i giudici nazionali possono, o a volte devono, sottoporre alla Corte di giustizia questioni pregiudiziali in merito all’interpretazione e alla validità del diritto dell’UE, che possono risultare essenziali ai fini della decisione nelle cause pendenti presso di essi. Il procedimento di pronuncia pregiudiziale prova, da un lato, che anche i tribunali degli Stati membri devono rispettare e applicare il diritto dell’UE e, dall’altro, che l’interpretazione e la valutazione della validità di tale diritto rientrano nella competenza esclusiva della Corte di giustizia. L’interdipendenza dell’ordinamento dell’UE e dei sistemi nazionali emerge anche quando si tratta di colmare lacune presenti nell’ordinamento giuridico dell’UE. Ciò avviene quando il diritto dell’UE, per completare norme proprie, rinvia a disposizioni giuridiche già esistenti nei sistemi giuridici degli Stati membri. Il destino di una norma di diritto dell’UE dipende pertanto, a partire da un certo punto, dalle rispettive norme nazionali. In genere ciò vale per tutti i casi di esecuzione del diritto dell’UE, a condizione che tale diritto non stabilisca norme proprie in materia. In tutti questi casi, le autorità nazionali applicano le norme dell’UE sulla base delle disposizioni del diritto nazionale. Questo principio vale naturalmente solo se l’efficacia del diritto dell’UE non viene messa in discussione e se si tiene conto dell’esigenza di una sua applicazione uniforme; occorre infatti evitare che gli operatori economici vengano trattati secondo criteri diversi e quindi in modo non equo.

Conflitto tra diritto dell’Unione europea e diritto nazionale

La relazione tra diritto dell’UE e diritto nazionale è caratterizzata anche dal fatto che gli ordinamenti giuridici dell’UE e degli Stati membri sono talvolta in contrasto tra loro. Tale situazione si verifica ogniqualvolta una disposizione del diritto dell’UE stabilisce per i cittadini diritti o obblighi diretti incompatibili con una norma di diritto nazionale. Dietro a tale situazione, apparentemente semplice, si celano due questioni di principio relative alla costruzione dell’UE, che mettono in causa l’esistenza stessa dell’ordinamento giuridico dell’UE: l’applicabilità diretta del diritto dell’UE e la preminenza del diritto dell’UE sul diritto nazionale che gli si contrappone.

L’applicabilità diretta del diritto dell’Unione europea nel diritto nazionale

Applicabilità diretta del diritto dell’UE significa innanzitutto che esso, in modo diretto, conferisce diritti e impone obblighi non soltanto alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri, ma anche ai cittadini dell’UE.

Uno dei grandi meriti della Corte di giustizia è aver riconosciuto, a dispetto della resistenza iniziale di taluni Stati membri, l’efficacia diretta delle disposizioni dell’UE, garantendo così l’esistenza dell’ordinamento giuridico dell’UE. Il punto di partenza della sua giurisprudenza fu il ricorso, già menzionato in precedenza, presentato davanti a un tribunale dei Paesi Bassi dall’impresa di trasporti neerlandese Van Gend & Loos contro l’amministrazione doganale neerlandese, che aveva riscosso un dazio maggiorato sull’importazione di un prodotto chimico proveniente dalla Repubblica federale di Germania. L’esito della controversia dipendeva, in ultima analisi, dalla possibilità per il singolo di invocare l’allora articolo 12 del trattato CEE, che vietava espressamente agli Stati membri di introdurre nuovi dazi doganali o di aumentare i dazi già esistenti nel mercato comune. La Corte di giustizia sancì, contro il parere di numerosi governi e del suo avvocato generale, l’applicabilità diretta delle disposizioni dell’UE, tenuto conto della natura e degli obiettivi dell’UE. Nella motivazione, la Corte di giustizia affermava:

che […] la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere […], ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini.

Pertanto il diritto comunitario, indipendente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo con cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal trattato ai singoli, agli Stati membri e alle istituzioni comunitarie».

Questa affermazione, da sola, non rappresenta però un grande passo avanti, in quanto resta ancora da stabilire quali siano le disposizioni del diritto dell’UE direttamente applicabili. In un primo momento, la Corte di giustizia ha esaminato tale questione nell’ottica della legislazione primaria dell’UE e ha stabilito che le norme dei trattati dell’UE trovano immediata applicazione nei confronti dei cittadini degli Stati membri qualora siano formulate senza riserve, complete in se stesse e giuridicamente perfette; in altri termini, qualora esse non necessitino, per la loro esecuzione o la loro efficacia, di altri atti degli Stati membri o delle istituzioni dell’UE.

La presenza di questi requisiti è stata confermata per l’ex articolo 12 del trattato CEE, così che anche l’impresa Van Gend & Loos ha potuto, sulla base di tale articolo, far valere i suoi diritti che il giudice neerlandese ha dovuto salvaguardare. Di conseguenza, tale giudice ha dichiarato illecito il dazio imposto contrariamente alle disposizioni del trattato. La Corte di giustizia ha ulteriormente sviluppato questa giurisprudenza, riferendola anche ad altre norme del trattato che, per i cittadini dell’UE, rivestono un’importanza assai maggiore dell’ex articolo 12 del trattato CEE. A tale proposito vanno ricordate tre sentenze relative all’applicabilità diretta della libera circolazione (articolo 45 TFUE), della libertà di stabilimento (articolo 49 TFUE) e della libera prestazione dei servizi (articolo 56 TFUE).

La Corte di giustizia si è pronunciata a favore dell’applicabilità diretta delle garanzie in materia di libera di circolazione nella causa 41/74 van Duyn. Tale causa trae origine dai seguenti fatti: nel maggio 1973 la signorina van Duyn, cittadina dei Paesi Bassi, si vedeva rifiutare l’autorizzazione ad entrare nel Regno Unito, allora ancora Stato membro dell’UE, ove intendeva recarsi per lavorare come segretaria della «Church of Scientology», istituto che il ministero degli Interni britannico riteneva rappresentasse un «pericolo per la società». Invocando le disposizioni del diritto dell’UE sulla libera circolazione dei lavoratori, la signorina van Duyn presentò ricorso alla High Court chiedendole di dichiarare il suo diritto a soggiornare nel Regno Unito per esercitarvi un’attività di lavoro dipendente e ad ottenere, quindi, l’autorizzazione ad entrarvi. Chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale dall’High Court, la Corte di giustizia ha dichiarato che l’articolo 48 del trattato CEE (ora articolo 45 TFUE) era direttamente applicabile e che, pertanto, anche i singoli erano legittimati a farlo valere davanti ai tribunali nazionali.

La Corte di giustizia venne interpellata dal Consiglio di Stato belga in merito all’applicabilità diretta della libertà di stabilimento. All’origine della richiesta vi era il ricorso presentato dall’avvocato neerlandese J. Reyners, il quale invocava i diritti riconosciutigli dall’articolo 52 del trattato CEE (articolo 49 TFUE). Il signor Reyners aveva presentato tale ricorso dopo essersi visto rifiutare l’autorizzazione ad esercitare la professione di avvocato in Belgio a causa della sua nazionalità, benché avesse superato gli esami necessari. Nella sentenza del 21 giugno 1974 la Corte ha statuito che non poteva sussistere una differenza di trattamento fra cittadini nazionali e stranieri in relazione al diritto di stabilimento, in quanto l’articolo 52 del trattato CEE, dopo lo scadere del periodo transitorio, trova diretta applicazione e conferisce quindi ai cittadini dell’UE il diritto di accedere a una professione e di esercitarla in un altro Stato membro, al pari di un cittadino nazionale. In virtù di tale sentenza, il signor Reyners venne autorizzato ad esercitare la professione di avvocato in Belgio.

La causa 33/74 van Binsbergen fornì alla Corte di giustizia l’occasione di sancire esplicitamente l’applicabilità diretta del diritto alla libera prestazione di servizi. Si trattava, in particolare, di stabilire se una norma di diritto neerlandese, in base alla quale solo una persona residente nei Paesi Bassi poteva intervenire in un processo d’appello come procuratore ad litem, fosse compatibile con le disposizioni del diritto dell’UE in materia di libera prestazione dei servizi. La Corte di giustizia diede parere negativo con la motivazione che qualsiasi restrizione imposta ai cittadini dell’UE per motivi di cittadinanza o di residenza violava l’articolo 59 del trattato CEE (articolo 56 TFUE) e doveva quindi considerarsi nulla.

Va sottolineata infine la grande importanza dal punto di vista pratico del riconoscimento dell’applicabilità diretta della libera circolazione delle merci (articolo 26 TFUE), del principio della parità di retribuzione fra uomini e donne (articolo 157 TFUE), del divieto di ogni forma di discriminazione (articolo 45 TFUE) e della libera concorrenza (articolo 101 TFUE).

Nel campo del diritto derivato, la questione dell’applicabilità diretta si pone unicamente per le direttive e per le decisioni di cui sono destinatari gli Stati membri, dal momento che i regolamenti e le decisioni rivolte a singole persone derivano la loro applicabilità diretta già dai trattati (articolo 288, secondo e quarto comma, TFUE). Dal 1970 la Corte di giustizia ha esteso i principi dell’applicabilità diretta del diritto primario dell’UE anche alle disposizioni delle direttive e alle decisioni adottate nei confronti degli Stati membri.

Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza pratica dell’efficacia diretta delle norme dell’UE, così come è stata riconosciuta e sviluppata dalla Corte di giustizia: migliora la posizione dei singoli cittadini dell’UE, facendo delle libertà previste dal mercato interno dei diritti che essi possono far valere di fronte ai tribunali nazionali. In tal modo, l’applicabilità diretta delle norme dell’UE diviene uno dei pilastri dell’ordinamento giuridico dell’UE.

La preminenza del diritto dell’Unione europea sul diritto nazionale

L’applicabilità diretta di una norma dell’UE solleva un altro interrogativo, altrettanto fondamentale: cosa accade se una disposizione del diritto dell’UE che sancisce diritti e doveri diretti per i cittadini dell’UE confligge con una norma del diritto nazionale?

Il conflitto fra diritto dell’UE e diritto nazionale può essere risolto solo se uno dei due ordinamenti giuridici prevale sull’altro. Il diritto scritto dell’UE non contiene però alcuna norma esplicita al riguardo. Nessuno dei trattati dell’UE sancisce, ad esempio, che il diritto dell’UE prevale su quello nazionale o che assume una posizione subordinata rispetto a quest’ultimo. Tuttavia le incompatibilità fra diritto dell’UE e diritto nazionale possono essere risolte unicamente riconoscendo la preminenza del primo sul secondo, con l’effetto che il diritto dell’UE viene così a sostituirsi, negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, alle disposizioni nazionali contrastanti. Cosa accadrebbe infatti all’ordinamento giuridico dell’UE se lo si volesse subordinare al diritto nazionale? Si ridurrebbe praticamente a un nulla! Le disposizioni di diritto dell’UE potrebbero essere abrogate da qualsiasi legge nazionale e non si potrebbe giungere a una loro applicazione unitaria e uniforme in tutti gli Stati membri. Sarebbe inoltre impossibile per l’UE assolvere i compiti che le sono stati demandati dagli Stati membri; verrebbe compromesso il suo funzionamento e andrebbero deluse le grandi speranze riposte nella costruzione di una comunità europea del diritto.

Tale problema non si pone nei rapporti tra diritto internazionale e diritto nazionale. Il diritto internazionale deve essere integrato o recepito nella legislazione interna di un paese per poter costituire parte integrante del suo ordinamento giuridico; la questione della preminenza viene quindi definita esclusivamente sulla base del diritto interno. A seconda del rango che il diritto nazionale riconosce al diritto internazionale, quest’ultimo può primeggiare sul diritto costituzionale, situarsi tra il diritto costituzionale e la legislazione ordinaria o allo stesso livello di quest’ultima. I rapporti tra la legislazione internazionale integrata o trasposta e la legislazione nazionale sono determinati in base alla regola della preminenza delle disposizioni più recenti su quelle precedenti (lex posterior derogat legi priori). Tali norme nazionali sui conflitti delle leggi non sono tuttavia applicabili ai rapporti con la legislazione dell’UE, in quanto quest’ultima non costituisce parte integrante delle legislazioni nazionali. Un eventuale conflitto tra la legislazione dell’UE e la legislazione nazionale deve pertanto essere risolto unicamente sulla base dell’ordinamento giuridico dell’UE.

Ancora una volta è stata la Corte di giustizia ad affermare, nonostante il parere contrario di taluni Stati membri, in considerazione delle conseguenze di una sua diversa posizione, il principio della preminenza del diritto dell’UE, senza il quale non potrebbe esistere un ordinamento giuridico dell’UE. Così facendo, la Corte di giustizia ha posto il secondo pilastro dell’ordinamento giuridico dell’UE che, insieme all’applicabilità diretta, ha consentito di rafforzare le basi di tale ordinamento.

Nella già citata causa Costa/ENEL la Corte di giustizia ha formulato due importanti constatazioni in merito ai rapporti tra il diritto dell’UE e gli ordinamenti nazionali.

In primo luogo, gli Stati membri hanno definitivamente rinunciato ai propri diritti di sovranità, trasferendoli a una realtà comune da essi stessi creata; atti unilaterali posteriori sarebbero incompatibili con la concezione del diritto dell’UE.

In secondo luogo, il trattato sancisce il principio in base al quale nessuno Stato membro può opporsi alla piena e uniforme applicazione del diritto dell’UE su tutto il territorio dell’UE.

Ne consegue che le norme dell’UE, emanate nell’esercizio dei poteri previsti dai trattati, prevalgono su ogni disposizione nazionale contraria. Non solo prevalgono sulle disposizioni vigenti, ma ostano altresì all’emanazione successiva di disposizioni nazionali con esse incompatibili.

In definitiva, la Corte di giustizia, pur astenendosi nella sentenza Costa/ENEL dall’esprimere un giudizio di merito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, in Italia, ha decisamente affermato la preminenza del diritto dell’UE sul diritto nazionale.

La conseguenza giuridica della preminenza è che, in caso di conflitti di leggi, la disposizione nazionale contraria a una norma dell’UE non è più applicabile; inoltre non può essere introdotta nell’ordinamento nazionale alcuna nuova disposizione non conforme alla legislazione dell’UE.

Tale principio è stato costantemente ribadito dalla Corte nella sua giurisprudenza successiva. La Corte ne ha inoltre ulteriormente ampliato la portata in relazione a uno specifico aspetto. Mentre nella sentenza citata era stata chiamata a pronunciarsi unicamente sulla questione della preminenza del diritto dell’UE nei confronti delle leggi nazionali, essa ha confermato il principio della preminenza della norma dell’UE anche nei rapporti con il diritto costituzionale degli Stati membri. Dopo qualche esitazione iniziale, i giudici nazionali hanno aderito, in linea di massima, al punto di vista della Corte di giustizia. Nei Paesi Bassi un simile problema non poteva peraltro porsi, poiché la costituzione neerlandese prevede espressamente la preminenza dei trattati sulle leggi nazionali (articoli 65-67). Negli altri Stati membri le giurisdizioni nazionali hanno riconosciuto il principio della preminenza del diritto dell’UE sulle leggi nazionali ordinarie. Di contro, le Corti costituzionali della Germania e dell’Italia non hanno accettato, in un primo momento, la preminenza del diritto dell’UE sul diritto costituzionale nazionale e soprattutto sulle garanzie nazionali in materia di diritti fondamentali. Essi hanno ammesso tale preminenza solo dopo che la tutela dei diritti fondamentali ha raggiunto, nell’ordinamento giuridico dell’UE, un livello essenzialmente corrispondente a quello riservatole nelle costituzioni nazionali. Tuttavia la Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale) tedesca ha continuato a nutrire riserve su una progressiva integrazione, che essa ha formulato chiaramente, in particolare nelle sue sentenze sul trattato di Maastricht e, più recentemente, sul trattato di Lisbona, nel senso di un «controllo ultra vires», secondo cui la Corte costituzionale federale avoca a sé la facoltà di esaminare se gli atti adottati dalle istituzioni e dagli organi dell’UE, comprese le sentenze della Corte di giustizia, rientrino nei limiti della competenza loro attribuita, o se vi sia piuttosto un’interpretazione ampliata dei trattati da parte del potere giudiziario dell’UE che costituisce una modifica autonoma illegittima dei trattati stessi. Successivamente la Corte costituzionale federale ha subordinato tale controllo ultra vires al requisito della «consultazione», secondo cui il controllo può essere esercitato unicamente dalla Corte costituzionale federale (e non anche da altri organi giurisdizionali nazionali) e soltanto con cautela e in uno spirito favorevole al diritto dell’UE. In tale contesto rientra in particolare il fatto che la Corte costituzionale federale:

  1. deve considerare le decisioni della Corte di giustizia come un’interpretazione vincolante del diritto dell’UE;
  2. deve fornire alla Corte di giustizia la possibilità di interpretare il trattato e di pronunciarsi sulla validità e sull’interpretazione dell’atto in questione, prima dell’adozione di un atto ultra vires nel contesto di un procedimento di pronuncia pregiudiziale (articolo 267 TFUE);
  3. infine deve prendere in considerazione il controllo soltanto se risulta evidente che le azioni degli organi dell’UE sono state attuate al di fuori delle competenze trasferite.

Nel contesto di tale rete ristretta di condizioni si potrebbe effettivamente presumere che un simile caso di atto ultra vires resterebbe di natura piuttosto teorica. Tuttavia la realtà ci ha insegnato qualcosa di meglio. Nella sua sentenza del 5 maggio 2020 sul programma di acquisto di obbligazioni della BCE, la Corte costituzionale federale ha ritenuto che l’acquisto di titoli di Stato da parte della BCE fosse contrario alla sua competenza e costituisse una violazione della costituzione tedesca. Una sentenza pronunciata in precedenza dalla Corte di giustizia sollecitata dalla Corte costituzionale federale nel contesto di una pronuncia pregiudiziale sulla legittimità del programma di acquisto di obbligazioni ai sensi del diritto dell’UE è stata qualificata dalla Corte costituzionale federale, per quanto riguarda il controllo della proporzionalità degli atti giuridici adottati per l’attuazione del programma di acquisto, come «assolutamente non più condivisibile» e pertanto respinta. Con tale sentenza, la Corte costituzionale federale adotta un chiaro approccio conflittuale rispetto alla Corte di giustizia e chiarisce allo stesso tempo che intende riservarsi la facoltà di esaminare il primato del diritto dell’UE sul diritto nazionale, che essa stessa ha ritenuto essenziale per il funzionamento dell’UE in una precedente decisione, e non farsi remore in tale contesto nel non tenere conto di una sentenza della Corte di giustizia sul merito. Resta da sperare che entrambi gli organi giurisdizionali siano presto in grado di colmare il divario di vedute creato dalla sentenza della Corte costituzionale federale e di tornare a una leale cooperazione e al rispetto reciproco, tanto più che la Corte costituzionale federale non mette fondamentalmente in discussione il primato del diritto dell’UE sul diritto costituzionale nazionale, ma si riserva il diritto di riesaminare in ultima battuta essa stessa tale aspetto in alcuni casi molto rari. Diverso è il caso verificatosi a seguito di una sentenza della Corte costituzionale polacca del 7 ottobre 2021, nel contesto della quale parti del diritto dell’UE sono state dichiarate chiaramente incompatibili con la costituzione polacca. Secondo la Corte costituzionale polacca, il tentativo della Corte di giustizia di interferire nel sistema giudiziario polacco viola la regola della supremazia della costituzione nonché la sovranità della Polonia. La Corte di giustizia aveva stabilito nel marzo 2021 che il diritto dell’UE può costringere gli Stati membri a ignorare singole disposizioni del diritto nazionale, anche se si tratta di diritto costituzionale. Nella fattispecie, i giudici dell’UE temevano che la procedura di nomina dei membri della Corte suprema in Polonia potesse violare il diritto dell’UE. Ciò comporterebbe come conseguenza il fatto che la Corte di giustizia potrebbe costringere la Polonia ad abrogare parti della controversa riforma. In seguito a tale sentenza, la Commissione europea ha immediatamente chiarito che i principi fondamentali dell’ordine giuridico dell’UE non sono soggetti a esame da parte degli organi giurisdizionali nazionali, nemmeno delle Corti costituzionali: il diritto dell’UE ha infatti la precedenza sul diritto nazionale, compreso il diritto costituzionale nazionale. La Commissione si è tenuta aperte tutte le opzioni per utilizzare i suoi poteri secondo i trattati e per assicurare l’applicazione uniforme e l’integrità del diritto dell’UE.

Una divisa da vigile del fuoco in un armadietto, pronta all'uso per un eventuale intervento.

Nella causa Pfeiffer la Corte di giustizia ha chiarito nel 2004 che gli operatori del soccorso rientrano nell’ambito di tutela della direttiva sull’orario di lavoro (direttiva 93/104/CE). I servizi di guardia devono essere pienamente considerati per il calcolo dell’orario massimo di lavoro settimanale di 48 ore.

Interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto dell’Unione europea

Al fine di evitare i conflitti tra le norme del diritto dell’UE e quelle nazionali che possono scaturire in forza della preminenza del primo sul secondo, tutte le istituzioni nazionali che sono chiamate concretamente ad applicare il diritto o a svolgere funzioni giurisdizionali devono senza dubbio ricorrere innanzitutto all’interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto dell’UE.

L’istituto dell’interpretazione conforme al diritto dell’UE è stato elaborato dalla Corte di giustizia e introdotto nell’ordinamento dell’UE relativamente tardi. Dopo aver indicato, in una prima fase, su richiesta dei tribunali nazionali, tale modalità interpretativa semplicemente come opportuna al fine di garantire un’interpretazione unitaria delle disposizioni nazionali nell’ambito di applicazione della direttiva, la Corte di giustizia stabiliva un vero e proprio obbligo di interpretazione conforme alla direttiva per la prima volta nel 1984, nella causa 14/83 von Colson e Kamann. In tale procedimento occorreva stabilire l’entità del risarcimento spettante a fronte del trattamento discriminatorio riservato alle donne in sede di assunzione. Mentre la disciplina tedesca prevedeva il mero risarcimento per il legittimo affidamento (in particolare quindi le sole spese di candidatura), la direttiva 76/207/CEE imponeva agli Stati membri di introdurre effettive sanzioni per garantire realmente le pari opportunità. La sanzione non era stata però ulteriormente precisata nel suo contenuto, cosicché la direttiva, relativamente a questo aspetto, non poteva essere dichiarata direttamente applicabile; si rischiava così di giungere a una pronuncia che avrebbe riconosciuto l’incompatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’UE, ma che non avrebbe potuto imporre al tribunale nazionale di disapplicare il diritto interno. La Corte di giustizia ha stabilito, in tale occasione, che le giurisdizioni nazionali sono obbligate a interpretare e applicare le norme interne di diritto civile in modo tale da garantire un’effettiva sanzione dei trattamenti discriminatori sulla base del sesso. Un indennizzo meramente simbolico non risponde ai presupposti di un efficace recepimento della direttiva.

La Corte di giustizia ha individuato il fondamento giuridico dell’interpretazione conforme al diritto dell’UE nel principio di leale cooperazione (articolo 4, paragrafo 3, TUE), in base al quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal trattato sull’UE o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’UE. Tra questi rientra anche l’obbligo degli organi nazionali di tenere conto, nell’interpretare e applicare il diritto nazionale su cui prevale quello dell’UE, del tenore letterale e delle finalità perseguite dal diritto dell’UE (dovere di lealtà verso l’Unione, cause riunite C-397/01 e C-403/01 Pfeiffer e altri). Per le autorità giurisdizionali tale obbligo si ricollega anche al ruolo da loro svolto come giudici europei, quali garanti della corretta applicazione e del rispetto del diritto dell’UE.

Una forma particolare di interpretazione conforme al diritto dell’UE è data dall’interpretazione conforme alle direttive, in base alla quale tutti gli Stati membri sono tenuti a dare esecuzione alle direttive. Gli operatori del diritto e le autorità giurisdizionali, facendo ricorso all’interpretazione conforme alla direttiva, devono contribuire a far sì che tale obbligo venga adempiuto integralmente dagli Stati membri. L’interpretazione conforme alla direttiva è finalizzata ad assicurare l’applicazione conforme del diritto e a garantire l’interpretazione e l’applicazione uniformi delle disposizioni di recepimento nazionali. Occorre evitare che sul piano nazionale vengano reintrodotti elementi di diversità in settori che sono uniformati a livello dell’UE attraverso le direttive.

L’interpretazione conforme al diritto dell’UE trova i propri limiti in una norma nazionale di tenore letterale tanto chiaro da non lasciare alcun margine di interpretazione; tale modalità interpretativa non giustifica, infatti, un’interpretazione contra legem del diritto nazionale. Ciò vale anche nel caso di un esplicito rifiuto del legislatore a recepire una direttiva nel diritto nazionale; un simile conflitto tra il diritto dell’UE e il diritto nazionale può essere risolto soltanto nell’ambito di una procedura di infrazione (articoli 258 e 259 TFUE).

CONSIDERAZIONI FINALI

Qual è il quadro generale che si può quindi ricavare dell’ordinamento giuridico dell’UE?

L’ordinamento giuridico costituisce il vero fondamento dell’UE e le conferisce il carattere di una comunità del diritto. Solo la creazione e la salvaguardia di un nuovo diritto consentono di realizzare gli obiettivi perseguiti con l’istituzione dell’UE. L’ordinamento giuridico dell’UE ha già dato un notevole contributo in tal senso. È anche grazie a esso che, attraverso la sostanziale eliminazione dei confini fra gli Stati membri, l’intensificazione degli scambi di beni e di servizi, la libera circolazione dei lavoratori e le strette relazioni transnazionali tra le imprese, il mercato unico europeo è oggi una realtà per 447 milioni di persone. Un’altra caratteristica storica dell’ordinamento giuridico dell’UE è la sua funzione di garante della pace. Ispirandosi all’obiettivo di conservare la pace e la libertà, si sostituisce alla forza come mezzo per risolvere i conflitti sulla base di norme di diritto che riuniscono sia i singoli cittadini sia gli Stati membri in una comunità solidale. L’ordinamento giuridico dell’UE diviene così un importante strumento per la salvaguardia e la creazione della pace.

L’ordinamento giuridico dell’UE — così come la comunità del diritto da esso retta — può sopravvivere solo qualora ne vengano garantiti il rispetto e la sicurezza. Ne sono garanti i due pilastri fondamentali dell’ordinamento giuridico dell’UE, vale a dire, l’applicabilità diretta del diritto dell’UE e la preminenza del diritto dell’UE sul diritto nazionale. Questi principi, la cui esistenza e salvaguardia sono stati sostenuti con fermezza dalla Corte di giustizia, garantiscono l’applicazione uniforme e prioritaria del diritto dell’UE in tutti gli Stati membri.

Nonostante le lacune che lo contraddistinguono, l’ordinamento giuridico dell’UE ha indiscutibilmente dato un contributo inestimabile per la soluzione dei problemi politici, economici e sociali che si pongono agli Stati membri dell’Unione europea.

GIURISPRUDENZA CITATA

Tutte le decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea sono disponibili online all’indirizzo: (www.eur-lex.europa.eu). EUR-Lex consente inoltre l’accesso gratuito nelle 24 lingue ufficiali dell’UE alle seguenti fonti:

  • diritto dell’UE (trattati dell’UE, regolamenti, direttive, decisioni, legislazione consolidata ecc.);
  • lavori preparatori (proposte legislative, relazioni, libri verdi e bianchi ecc.);
  • accordi internazionali;
  • sintesi delle normative dell’UE che inseriscono gli atti giuridici nel proprio contesto politico.

Natura giuridica e preminenza del diritto dell’UE

Causa 26/62 Van Gend & Loos, ECLI:EU:C:1963:1 (natura giuridica del diritto dell’UE; diritti e obblighi dei privati cittadini).

Causa 6/64 Costa/ENEL, ECLI:EU:C:1964:66 (natura giuridica del diritto dell’UE; applicabilità diretta; preminenza del diritto dell’UE).

Causa 14/83 von Colson e Kamann, ECLI:EU:C:1984:153 (interpretazione conforme al diritto dell’UE del diritto nazionale).

Causa C-213/89 Factortame, ECLI:EU:C:1990:257 (applicabilità diretta e preminenza del diritto dell’UE).

Cause riunite C-6/90 e C-9/90 Francovich e Bonifaci, ECLI:EU:C:1991:428 (efficacia del diritto dell’UE; responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto dell’UE: in questo caso, mancata attuazione di una direttiva).

Cause riunite C-46/93 e C-48/93 Brasserie du pêcheur e Factortame, ECLI:EU:C:1996:79 (efficacia del diritto dell’UE; responsabilità generale degli Stati membri per violazioni del diritto dell’UE).

Cause riunite da C-397/01 a C-403/01 Pfeiffer e altri, ECLI:EU:C:2004:584 (interpretazione conforme al diritto dell’UE del diritto nazionale).

Competenza dell’UE

Cause riunite 3, 4 e 6/76 Kramer, ECLI:EU:C:1976:114 (relazioni esterne; impegni internazionali; competenza dell’UE).

Parere 2/91, ECLI:EU:C:1993:106 (ripartizione delle competenze tra l’UE e gli Stati membri).

Parere 2/94, ECLI:EU:C:1996:140 (adesione della CE alla CEDU; assenza di competenza).

Parere 2/13, ECLI:EU:C:2014:2454 (incompatibilità del progetto di adesione UE con la CEDU e con il diritto dell’UE)

Efficacia degli atti giuridici

Causa 2/74 Reyners, ECLI:EU:C:1974:68 (applicabilità diretta; libertà di stabilimento).

Causa 33/74 van Binsbergen, ECLI:EU:C:1974:131 (applicabilità diretta; libera prestazione di servizi).

Causa 41/74 van Duyn, ECLI:EU:C:1974:133 (applicabilità diretta; libera circolazione).

Diritti fondamentali

Causa 29/69 Stauder, ECLI:EU:C:1969:57 (diritti fondamentali; principi generali del diritto).

Causa C-112/00 Eugen Schmidberger, ECLI:EU:C:2003:333 (libera circolazione delle merci; diritti fondamentali).

Tutela giuridica

Causa T-177/01 Jégo-Quéré e Cie/Commissione, ECLI:EU:T:2002:112 (lacuna di tutela giuridica in atti giuridici con effetto diretto, ma assenza di pregiudizio individuale); diversamente la Corte di giustizia nella sua sentenza di secondo grado del 1º aprile 2004 nella causa C-263/02 P Commissione/Jégo-Quéré e Cie, ECLI:EU:C:2004:210.

Causa T-18/10 Inuit Tapiriit Kanatami, ECLI:EU:T:2011:419 (definizione di «atti regolamentari»); confermata dalla Corte di giustizia nella sua sentenza di secondo grado del 3 ottobre 2013 nella causa C-583/11 P, ECLI:EU:C:2013:625.

NOTE

1 Tale designazione non pregiudica le posizioni riguardo allo status ed è in linea con la risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con il parere della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

2 Le dimissioni della Commissione Santer del 1999 sono scaturite dalla mancata concessione del discarico del bilancio; tuttavia la mozione di sfiducia presentata è stata respinta, seppure per pochi voti.

3 Le cifre relative alla popolazione e il calcolo sono disponibili al seguente link: https://www.consilium.europa.eu/it/council-eu/voting-system/voting-calculator/

4 Per i dettagli consultare la sezione «Responsabilità dello Stato membro in caso di violazioni del diritto dell’UE».

INFORMAZIONI

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Manoscritto ultimato nel mese di marzo 2023.

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L’ABC del diritto dell’Unione europea

L’ordinamento giuridico dell’Unione europea influenza la nostra realtà politica e sociale. Il singolo individuo non è soltanto un cittadino del suo Stato, della sua città o del suo comune, ma è anche cittadino dell’UE.

Con L’ABC del diritto dell’Unione europea, il prof. Klaus-Dieter Borchardt ha realizzato un’opera che descrive anche le origini dell’Unione europea e il suo sviluppo come ordinamento giuridico.

L’opera è diretta a tutti i lettori interessati a una prima comprensione della struttura dell’Unione europea e dei pilastri dell’ordinamento giuridico europeo.

 

Il professor Klaus-Dieter Borchardt ha ricoperto vari ruoli all’interno della Commissione europea fino al suo pensionamento nel 2019. È professore onorario presso l’Università di Würzburg e ha pubblicato numerose opere sul diritto europeo.